Si segnala una  recente pronuncia del Tribunale di Ferrara (sentenza  n. 14/2019 del 25 marzo 2019 il  Tribunale di Ferrara, Giudice del   lavoro dott.ssa Monica Bighetti),  resa in favore di lavoratrice madre  di minore portatrice di handicap, assistita dall’Avv. Sara Antonia Passante e dall’Avv. Alberto Piccinini.

La  lavoratrice,  dipendente di una società della grande distribuzione organizzata, risultava destinataria, al rientro in servizio dalla maternità e dopo aver fruito  del congedo straordinario per assistere la figlia minore affetta da handicap,  di turni lavorativi  spezzati e serali, con assegnazione continuativa delle c.d. “chiusure”.

La “non corretta” gestione dei turni di lavoro è stata ritenuta  esemplificativa di una discriminazione indiretta, tenuto conto dei fattori protetti dall’ordinamento di cui è portatrice la lavoratrice.

Da un lato vi è la posizione  di protezione collegata all’art. 37 Costituzione e  all’art. 25 comma 2 bis del dlgs 11.4.2006 n. 198,  secondo il quale “costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità o dell’esercizio dei relativi diritti”. Dall’altro viene in rilievo la  tutela offerta ai lavoratori disabili e a coloro che se ne prendono cura di cui al dlgs 216/2003, volto ad attuare la “parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap” ,  che  traspone  nell’ordinamento interno la Direttiva 2000/78 in materia di parità di trattamento  nel lavoro.

L’armonizzazione tra le esigenze aziendali e le qualificate  esigenze della lavoratrice  costituisce  un “accomodamento ragionevole”  che  inutilmente  la lavoratrice aveva richiesto prima della proposizione del giudizio.

Si osserva che la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili del  2006 (ratificata con legge del 3.3.2009 n. 18) ricomprende nella  nozione di discriminazione basata sulla disabilità, anche  il rifiuto di accomodamenti ragionevoli, cioè delle modifiche e degli adattamenti necessari ed appropriati per assicurare ai disabili l’esercizio dei diritti su base di uguaglianza.

Il Tribunale   ha  dichiarato la  discriminatorietà del comportamento assunto dalla  società nei confronti della  lavoratrice, condannandola  a far cessare il comportamento ed  ordinandole di assegnare alla  dipendente  “turni sostanzialmente diversi, che tenessero conto, secondo buona fede,  delle istanze della lavoratrice, madre di portatore di handicap, armonizzandole con quelle aziendali, come, a titolo di esempio, un orario articolato su sei giorni settimanali con due chiusure ed una apertura, oppure due aperture e una chiusura e con cessazione dell’orario alle 15 salve le ipotesi delle due chiusure.”

Il Tribunale, richiamata  la regola processuale secondo la quale “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione  (comma 4 art.28 l. 150/2011)”, rileva che  l’orario di lavoro imposto alla lavoratrice al rientro dalla seconda maternità “costituisce una chiara esemplificazione di comportamento discriminatorio in ragione dello stato di lavoratrice madre ed in ragione dell’handicap della figlia minore”. La società, secondo il  Giudice, “pur potendo, non ha voluto predisporre turni di tipo diverso” che consentissero alla lavoratrice di accudire le figlie “e soprattutto quella disabile con la quale la ricorrente <<non ha un rapporto>> tornando a casa che la figlia è a letto pur avendone la piccola, secondo il recente colloquio con il neuropsichiatra, estremo bisogno.”

Secondo il Tribunale l’argomentare della società  secondo cui   “l’orario di lavoro affidato a Monica F….al rientro della maternità è il medesimo di quello affidatole precedentemente, evidenziandosi così l’assenza in radice di alcuna volontà discriminatoria” non coglie nel segno , poiché “la situazione di rientro dalla seconda maternità non è infatti uguale alla situazione precedente.  Al rientro dalla maternità la lavoratrice ha una figlia inabile.

Sotto il profilo del quadro normativo applicabile alla fattispecie, osserva il Giudice che la lavoratrice è destinataria di una duplice protezione normativa in quanto lavoratrice madre ed in quanto lavoratrice madre di un minore disabile”.

Ritiene il Giudice che la  norma interna (dlgs 216/2003, artt. 1e 2)  costituisce trasposizione della Direttiva 2000/78 (articoli 1 e 2)  e che la sentenza della Corte di Giustizia Grande Sezione, 17 luglio 20108, Coleman, che interpreta gli articoli 1 e 2 della Direttiva nel senso che il divieto di discriminazione ivi previsto non è limitato alle sole personale che siano esse stesse disabili, bensì anche al lavoratore che presta la parte essenziale delle cure al figlio disabile – diversamente  ne sarebbe tradito l’obiettivo della direttiva ed il suo effetto utile – ha un valore interpretativo vincolante per il giudice interno, primo giudice del diritto UE, indipendentemente dal tipo di discriminazione attuata nel caso specifico esaminato dalla sentenza della Corte di Lussemburgo”.

La sentenza Coleman,  come noto,  ha ad oggetto la discriminazione diretta e le molestie. Tuttavia i  principi enucleati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella citata pronuncia  possono essere estesi anche alla discriminazione indiretta in quanto fondata sulla inabilità  <<perché limitare l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe di privare tale direttiva di una parte importante del suo effetto utile e ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire>> (Grande Sezione, 17.7.2008, nel procedimento 303/06).

Dopo aver richiamato i principi di diritto in materia di discriminazione di genere ed handicap  il Tribunale evidenzia come “… Trattare in maniera identica agli altri lavoratori in punto di orari e turni di lavoro una persona in difficoltà e doppiamente protetta dall’ordinamento, sia in ragione della maternità sia in ragione dell’inabilità del figlio, significa operare una discriminazione indiretta perché una decisione datoriale, apparentemente neutra e che si dice gravare su tutti, pone la lavoratrice in una posizione di particolare svantaggio  rispetto agli altri lavoratori a tempo pieno.  Se viene evidenziata, così come è stata evidenziata ripetutamente, una situazione di difficoltà e disagio per la nascita di un neonato con handicap, lasciare immutato l’orario di lavoro a fronte di una richiesta di ammorbidimento in ragione dell’handicap, significa trattare allo stesso modo una situazione profondamente diversa e diversa in ragione dell’esistenza di un minore con handicap da accudire.  Si ritiene quindi che il diniego dell’azienda di trovare un accomodamento sull’orario di lavoro sia l’espressione di una discriminazione indiretta perché un orario, pure accettato dalla lavoratrice prima dell’evento e quindi un atto apparentemente neutro, mette la madre di figlio con handicap in una particolare situazione di svantaggio rispetto ad altri lavoratori, che pur seguendo orari simili, non hanno un figlio minore con handicap.”

Il Giudice, esaminati gli atti di causa,  rilevato   che “nessun’altra lavoratrice femmina conclude il lavoro alle ore 21-22 tutte le sere” afferma che  “vi sono elementi di fatto sufficienti per affermare, ai sensi dell’art. 28 co. 4 del decreto legislativo 150/2011 che il particolare trattamento riservato alla signora…..  sia legato alla condizione di madre di minore con handicap che ha fatto valere i suoi diritti dapprima rimanendo assente due anni dal lavoro e successivamente chiedendo i permessi per handicap e gli esoneri dal lavoro notturno, festivo, e domenicale. L’inazione dell’azienda, ossia avere mantenuto un orario spezzato comprendente tutte le chiusure, nei confronti di un lavoratore doppiamente protetto che aveva chiesto un ammorbidimento del medesimo, nonostante statisticamente possa rilevarsi che un orario diverso è articolato per tutti i reparti salvo un’eccezione (C…) non può non evidenziare una discriminazione, se non un particolare accanimento nei confronti della giovane madre.”

Il Giudice ritiene altresì violati i canoni di correttezza e buona fede anche in considerazione della previsione dell’art. 133 del ccnl di settore  terziario – commercio, secondo la quale “fermi i limiti di durata massima e le disposizioni del presente contratto in materia, il datore di lavoro fisserà gli orari di lavoro armonizzando le istanze del personale con le esigenze dell’azienda…Dal verbo “armonizzare” che si rinviene nella disposizione contrattuale – si legge nella sentenza – “emerge che il potere datoriale di determinazione dell’orario di lavoro non è assoluto, potestativo, frutto di una discrezione illimitata. Ciò perché nella fissazione dell’orario occorre armonizzare ossia accordare, rendere compatibili le esigenze del lavoratore con quelle dell’azienda. Secondo le disposizioni che regolano il concreto rapporto di lavoro tra le parti, in materia di fissazione dell’orario di lavoro, in altre parole, vi è un obbligo per l’imprenditore, quello di tenere conto delle esigenze del lavoratore e armonizzarle con quelle dell’azienda. Diversamente opinando la norma non avrebbe significato alcuno, derivando dalla legge il potere direttivo del datore di lavoro e quindi il potere di articolare l’orario di lavoro (art.2094 c.c.).”.

In punto di rimozione degli effetti della discriminazione  rileva il Giudice come  le particolari esigenze di cura risultino  frustrate dalla assenza della ricorrente  “continuata e totale nei pomeriggi e sere, momenti in cui la minore è  libera dagli impegni scolastici, in pratica gli unici momenti in cui può frequentare la madre”,  e come la disposizione di cui all’art. 3 comma 3 bis dl dlgs 216/2003 preveda che “al fine di garantire il rispetto del principio di  parità di trattamento delle persone con disabilità i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad accomodamenti ragionevoli …nei luoghi di lavoro”.

Il Tribunale ha altresì condannato la società al risarcimento del danno patito dalla lavoratrice, liquidato in E. 20.000,00,  conseguito al trattamento discriminatorio subito,  al patimento sofferto per non avere potuto accudire a sufficienza la figlia minore disabile, al non averla  potuta frequentare e stimolare nei momenti in cui era libera dagli impegni scolastici.

Avv. Sara Passante

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