Alberto Piccinini
“Abbiamo solo applicato la legge” è stato il primo commento della FIAT a seguito del comunicato della Corte Costituzionale che, nell’imminenza dell’udienza del 2 luglio 2013 ha informato la stampa di aver dichiarato “illegittimo l’art. 19 nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti, quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.
La sentenza n. 231, poi depositata il 23 luglio 2013, ha determinato più preoccupanti commenti da parte del Lingotto: ma per ora soffermiamoci sul primo.
Perché se è vero che – di regola – chi si vede dichiarare incostituzionale una norma che fino al giorno prima faceva parte dell’ordinamento giuridico ha tutto il diritto di invocare la propria buona fede, questo non è proprio il caso della Fiat, che in quell’articolo dello Statuto dei Lavoratori non si è affatto imbattuta per caso, avendo elaborato sofisticate strategie giuridiche pur di poterlo applicare, proprio in ragione dell’ambiguità del testo e del conseguente uso “antidemocratico” che si proponeva di farne.
Perché – va ricordato – il ricorso alle Rappresentanze Sindacali Aziendali previste dall’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori costituisce da un ventennio un’anomalia dell’ ordinamento intersindacale, avendo le parti sociali espresso una preferenza per le Rappresentanze Sindacali Unitarie, istituite dall’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993, preferenza espressamente confermata, anche recentemente, dall’Intesa CGIL, CISL e UIL / Confindustria sottoscritta il 31 maggio 2013 (attuativo dell’Accordo Interconfederale 28 giugno 2011) nella quale si ribadisce che le organizzazioni sindacali aderenti alle Confederazioni firmatarie o comunque aderenti all’Intesa “partecipando alla procedura di elezione delle RSU, rinunciano formalmente ed espressamente a costituire RSA ai sensi della legge n. 300/70” e “si impegnano a non costituire RSA… nelle realtà in cui siano state o vengano costituite le RSU”.
Le ragioni di questa preferenza vanno ricercate nelle caratteristiche di maggiore democraticità dell’istituto delle RSU, stante la sua natura totalmente (dal 2013) elettiva che coinvolge tutti i dipendenti di un’azienda, iscritti o non iscritti al sindacato, mentre le RSA sono organismi nominati dalle organizzazioni sindacali territoriali.
Ma non da tutte: infatti nel suo testo originario l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori prevedeva che tale nomina avesse luogo, su iniziativa dei dipendenti, “a) nell’ambito di associazioni sindacali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” o “b) nell’ambito delle associazioni sindacali, non affiliate alle predette confederazioni, firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali applicati nell’unità produttiva”.
Nel 1995, a seguito di un referendum, veniva abrogato parzialmente il testo dell’art. 19 della l. n. 300 del 1970, cancellando il riferimento alle “associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” contenuto nella lett. a), e restando quindi il solo requisito di accesso alla “rappresentanza aziendale” dell’essere il sindacato “firmatario di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva”.
Doveva quindi ritenersi che l’unico requisito per accedere al sostegno legislativo fosse solo e necessariamente la firma del contratto applicato in azienda?
Non si rischiava, in questo modo, di lasciare spazio a sindacati per nulla rappresentativi dei dipendenti, la cui unica caratteristica fosse quella della disponibilità a sottoscrivere accordi, quando già la Corte Costituzionale, con sentenza n. 30 del 1990, aveva messo in guardia dal pericolo del “potere di accreditamento della controparte imprenditoriale, che (…) può non offrire garanzie di espressione della rappresentatività reale”?
Investita della questione di costituzionalità del testo emerso dal referendum, nel 1996 la Corte, con sentenza n. 244, proprio con riferimento a tale problematica, aveva confermato la legittimità dell’art. 19, interpretato però nel senso che il sindacato firmatario deve dimostrare di essere effettivamente “rappresentativo”, con “capacità di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione, come controparte contrattuale”.
I giudici delle leggi avevano pertanto precisato che per accedere alle RSA l’organizzazione sindacale deve – oltre alla sottoscrizione – anche aver partecipato alle trattative, dovendo caratterizzarsi come un sindacato “capace di imporsi” – come sin dal 1988 con la sentenza n. 334 la stessa Corte aveva dichiarato – “di esprimere un grado di rappresentatività idonea a tradursi in effettivo potere contrattuale”.
Veniva cioè valorizzata l’ “effettività dell’azione sindacale, desumibile dalla partecipazione alla formazione della normativa contrattuale collettiva (sentenza n. 492 del 1995) quale indicatore di rappresentatività già apprezzato dalla sentenza n. 54 del 1974”.
Il problema era però risolto a metà: la sentenza del 1996 da un lato riconosceva che il “potere di accreditamento” datoriale non potesse essere agevolmente e sistematicamente impiegato per negare la “rappresentanza aziendale” ad un sindacato “effettivamente rappresentativo”; dall’altro, però, continuava a considerare requisito essenziale la sottoscrizione del contratto applicato in azienda: una condizione necessaria, sebbene non sufficiente (essendo richiesto anche l’ulteriore requisito della partecipazione alle trattative).
Invero, storicamente, la questione dell’inadeguatezza dell’art. 19 dello Statuto nell’ultimo quindicennio non si è posta, sia perché l’istituto delle RSA era… in disuso, sia perchè, di regola, i contratti collettivi applicati nei luoghi di lavoro venivano sottoscritti unitariamente dalle sigle sindacali più rappresentative.
Esso non sarebbe necessariamente scaturito neppure dopo, in occasione della cd. “contrattazione separata” ove si fosse continuato ad utilizzare le Rappresentanze Sindacali Unitarie previste dai citati accordi interconfederali, come è storicamente avvenuto in tutti i settori ad eccezione del Credito e di alcune aziende del Terziario.
Di qui la geniale idea suggerita alla Fiat da qualche astuto giurista: per far fuori la FIOM dalle proprie aziende sarebbe stato sufficiente “sganciarsi” da tutta la previgente contrattazione collettiva applicata nei propri stabilimenti e quindi anche dall’ Accordo Interconfederale istitutivo delle RSU, anche a costo di far uscire il maggior gruppo industriale del Paese da Federmeccanica, e quindi da Confindustria, l’associazione che rappresenta le principali imprese italiane. Il successivo passo era quello di inserire, nella contrattazione che si andava a “negoziare” con le altre sigle sindacali, l’opzione per l’istituto della RSA , in ragione di quel testo che, secondo una interpretazione “letterale”, avrebbe giustificato l’esclusione della sigla sindacale non firmataria della nuovo CCLS (contratto collettivo di lavoro specifico) che, per il Gruppo Fiat, sostituisce il CCNL.
Le cronache non registrano una strenua resistenza di FIM-CISL e UIL-UILM, che hanno sottoscritto con FIAT il CCLS, a rinnegare l’istituto della RSU, pur indicato dalle Confederazioni sindacali (di cui fanno parte) firmatarie gli Accordi Interconfederali in materia come l’istituto destinato a sostituire le RSA: a fronte di una richiesta Fiat di fare l’esatto contrario, hanno evidentemente colto il vantaggio che ne avrebbero conseguito rispetto ad una organizzazione sindacale “concorrente” e, come rispetto ad alte richieste, prontamente aderito.
La ragione, quindi, per cui una questione “dormiente” da oltre 15 anni e’ tornata alla ribalta va quindi ricercata esclusivamente nel fatto che l’apprendista stregone, nel “riesumare” l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori in – esclusiva – funzione anti-Fiom, non e’ riuscito a governare fino in fondo una norma il cui testo, nelle intenzioni del Legislatore del 1970 e dell’elettorato che si e’ pronunciato con il referendum, non era certo immaginato per non consentire la presenza della organizzazione sindacale più rappresentativa nel settore metalmeccanico nelle aziende.
Con la sentenza n. 231 del 23 luglio 2013 la Corte Costituzionale fa un ulteriore passo avanti: il requisito della necessaria partecipazione alla contrattazione diviene il vero indice di rappresentatività che dà diritto al sostegno previsto dalla Statuto, mentre quello della sottoscrizione non diviene più indispensabile.
In particolare la Corte, specificando le ragioni per cui ha dichiarato l’illegittimità incostituzionale l’art. 19, primo comma, lett. b) dello Statuto Lavoratori nell’interpretazione “letterale” del vecchio testo accoglie in pieno le considerazioni in diritto proposte dal Tribunale del lavoro di Modena (e fatte proprie anche dai Tribunali di Vercelli e di Torino), respingendo le avverse argomentazioni della FIAT e della stessa Avvocatura Generale dello Stato e prendendo atto delle numerose pronunce della stessa Corte sia precedenti che successive al referendum del 1995.
La Corte dà atto “del dibattito critico” sviluppatosi dalla seconda metà degli anni ottanta “in vista di una esigenza di revisione del meccanismo selettivo della maggiore rappresentatività previsto ai fini della costituzione delle rappresentanze nei luoghi di lavoro” e “dell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali”, come diffusamente descritto nelle ordinanze di remissione in conseguenza del quale “dalla mancata sottoscrizione del contratto collettivo è derivata la negazione di una rappresentatività che esiste, invece nei fatti e nel consenso dei lavoratori addetti all’unità produttiva”.
Questa nuova prospettiva, secondo la Corte, impone “una rilettura dell’art. 19, primo comma lett. b) che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende”. In altre parole, richiede un “intervento additivo” che renda conforme il criterio di rappresentatività individuato dalla legge con lo spirito e le finalità della legge stessa.
Mentre la difesa della FIAT auspicava esplicitamente che venisse rimarcata la “logica premiale” nei confronti del sindacato disponibile alla firma del contratto rispetto a quello conflittuale, la Corte ha invece evidenziato che così la norma si tradurrebbe in una “forma impropria di sanzione del dissenso” rispetto a chi assume un “atteggiamento consonante con l’impresa”. In questo modo verrebbe condizionata la “libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati” mentre, per l’altro verso, vi sarebbe il rischio di favorire “un illegittimo accordo ad excludendum“.
Con la sentenza della Consulta pluralismo e libertà sindacale trovano così una tutela piena “a valle”, al momento della decisione se sottoscrivere o meno un determinato contratto collettivo, decisione che non può essere in alcun modo condizionata dall’effetto automatico di estromissione dalle prerogative sindacali. La Corte infatti opportunamente puntualizza che la tutela, azionabile ai sensi dell’art. 28 dello Statuto, esiste anche “a monte” in quanto all’organizzazione sindacale, in ragione della sua acquisita rappresentatività, non può essere negato l’accesso al tavolo delle trattative.
La Corte conclude evidenziando come non rientri nei suoi poteri affrontare il più generale problema della mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione né individuare un criterio selettivo della rappresentanza sindacale, ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata dello Statuto: peraltro, nell’indicare nel legislatore il soggetto competente a intervenire in tal senso, suggerisce, astrattamente, una molteplicità di soluzioni, la prima delle quali è proprio la “valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti” che è proprio quello individuato – unitamente a quello della rappresentatività elettiva – dalla recente Intesa sottoscritta il 31 maggio 2013 dal CGIL, CISL, UIL e Confindustria attuativa dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2013.
Tornando al primo commento iniziale della FIAT occorre semplicemente dire che con la sentenza viene fatta giustizia di una manovra tanto furba quanto spregiudicata, e la Costituzione torna anche in quelle fabbriche in cui si volevano cancellati i più elementari principi di democrazia, con grande sorpresa di chi aveva tale manovra aveva architettato.
E sarebbe serio non mostrare un candido stupore per il fatto che sia stata dichiarata incostituzionale un articolo di legge di cui si voleva fare un uso strumentale distorto: l’unico commento consentito e’ “ci abbiamo provato e ci è andata male”. In sostanza è come se io, per eliminare il mio nemico, andassi a rovistare in soffitta, tirassi fuori da un baule un vecchio fucile inutilizzato e arrugginito per poi stupirmi, nel momento del suo utilizzo, se l’arma si inceppa o addirittura mi esplode in mano.
Un’ultima considerazione. Come commento finale della sentenza, una volta pubblicata, la FIAT ha esternato la possibilità di “modificare l’attuale assetto delle proprie relazioni sindacali e, in prospettiva, le sue strategie industriali in Italia”.
Ma non sarà giunto il momento di smettere di contrapporre la possibilità di investimenti al riconoscimento dei diritti sindacali (in questo caso di rango costituzionale)?
Bologna, 24 luglio 2013