Tutto lascia pensare che l’inibizione, disposta per legge, del potere di recesso unilaterale del datore, a fronte di ragioni connesse alla organizzazione delle sue attività, finisca con il durare (almeno?) un anno. Contemporaneamente appare emergere un legame tra questa scelta, con pochi precedenti nella storia della Repubblica, e l’evoluzione della pandemia, tornata da ultimo assai preoccupante.

 

1. Il “blocco” dei licenziamenti continua fino al 31 gennaio (e forse fino a marzo)

L’articolo 12, co. 9 e 10, del d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020, ha recentemente prorogato «fino al 31 gennaio 2021» il c.d. “blocco” dei licenziamenti collettivi così come dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, già introdotto dall’art. 46 del d.l. n. 18 del 17 marzo 2020[1].

Pochi giorni dopo d’altra parte la stampa ha dato notizia del fatto che il Presidente del Consiglio, in occasione di un incontro con i principali sindacati dei lavoratori, avrebbe promesso loro un ulteriore prolungamento del divieto fino alla fine di marzo, impegno che sembra verrà attuato con la legge di Bilancio 2021. Nel mentre verrebbero garantite alle imprese altre settimane di cassa integrazione o, in alternativa, esonero dai contributi.

Tutto dunque lascia pensare che l’inibizione, disposta per legge, del potere di recesso unilaterale del datore, a fronte di ragioni connesse alla organizzazione delle sue attività, finisca con il durare (almeno?) un anno. Contemporaneamente appare emergere un legame tra questa scelta, con pochi precedenti nella storia della Repubblica, e l’evoluzione della pandemia, tornata da ultimo assai preoccupante.

L’intervento di fine ottobre fa cessare un dibattito piuttosto acceso, generato invece in precedenza dalla interpretazione dell’art. 14 del d.l. n. 104 del 14 agosto 2020. A causa dell’indiscutibile ambiguità e per certi versi oscurità di quest’ultimo, molto probabilmente dipesa dall’influenza di «fattori politici, pressioni dei soggetti economici e sociali, lobbies, contrappesi provenienti dalle varie forze politiche»[2], tutt’altro che di rado operanti nella formazione delle norme; più che mai attivi in un frangente delicato come l’attuale. In un momento in cui in particolare si pensava che, con l’allontanamento del pericolo della pandemia, fosse possibile tornare alle … pregresse consuetudini.

Le questioni discusse a proposito dell’art. 14 conservano oggi rilievo giuridico esclusivamente per quel che concerne licenziamenti in ipotesi avvenuti tra il 15 agosto ed il 28 ottobre 2020. Che tutto lascia pensare siano stati tuttavia davvero pochi.

In effetti gli stessi sostenitori delle tesi secondo cui, in applicazione del decreto di agosto, i licenziamenti, in determinati casi, sarebbero di nuovo ritornati possibili, erano per primi consapevoli dei rischi cui in tal modo i datori sarebbero stati esposti. E nonostante una singolare norma, concernente la disciplina della revoca dei licenziamenti, introdotta dal decreto ma poi eliminata in ottobre nel testo di conversione[3], potesse rappresentare un commodus discessus per questi ultimi[4], pressoché nessuno alla fine ha optato per i licenziamenti.

Di seguito saranno però egualmente dedicate alcune brevi considerazioni ai problemi che per alcuni mesi hanno impegnato parte della dottrina (e per nulla, come già detto, la giurisprudenza!), anche perché assai interessanti quanto all’approccio metodologico. Forse utili inoltre, ai fini dell’interpretazione delle norme che verranno.

 

2. Voglia di licenziare! L’esegesi senza sistema ed il sistema illuminato a metà

L’articolo 14 si è indubbiamente caratterizzato per una tecnica innovativa di intervento, nella regolamentazione del divieto di licenziamento: tecnica appunto da ultimo abbandonata per tornare alle origini, con l’art. 12 del d.l. n. 137 del 2020.

Infatti secondo le previsioni dell’art. 14 il divieto di licenziamento non operava più in un intervallo temporale esattamente prestabilito ma variabile e per così dire “personalizzato”, legato cioè a scelte dei singoli datori.

Veniva infatti chiaramente precisato che, una volta terminato il periodo di integrale fruizione dei «trattamenti di integrazione salariale riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19» ovvero «dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali» (previsto dall’art. 3 del d.l. n. 104 come alternativo alla fruizione di parte dei medesimi trattamenti di integrazione salariale), il datore potesse avviare le procedure di licenziamento collettivo o recedere per giustificato motivo oggettivo (ovvero ancora proseguire nei rispettivi iter procedurali, con riferimento ai licenziamenti individuali di cui all’art. 7, legge n. 604 del 1966, se a suo tempo sospesi). Ma questo finiva appunto con l’avvenire in momenti diversificati, dipendenti dalle scelte effettuate da ciascun datore[5].

Tuttavia nel nostro ordinamento non esiste un vincolo di fruizione dei trattamenti salariali: neanche di quelli «riconducibili all’emergenza epidemiologica da COVID-19»; tantomeno di accesso all’esonero dei versamenti contributivi introdotto dall’art. 3. Né appare possibile sostenere che questo fosse stato implicitamente introdotto.

Mentre la normativa – pur contenendo espressioni piuttosto pregnanti, volte a segnalare elementi di continuità rispetto alle disposizioni pregresse – non indicava esattamente che cosa accadesse del divieto di licenziamento e comunque che durata questo avrebbe avuto, laddove i datori non si fossero avvalsi né dei trattamenti di integrazione salariale né dell’esonero contributivo.

Ecco allora che è stato sostenuto come in queste ipotesi – laddove i datori di lavoro fossero stati cioè “impossibilitati”…ma anche “non intenzionati” ad accedere all’uno od altro strumento – il vincolo in oggetto non avrebbe operato[6].

Nel contempo si è sottolineato che sarebbe divenuto di nuovo possibile procedere a licenziamenti collettivi ed individuali per giustificato motivo oggettivo, laddove questi ultimi non fossero stati riconducibili a ragioni connesse all’emergenza provocata dalla pandemia[7].

L’impressione è però che queste interpretazioni, molto legate all’esegesi del testo, pure talora approfondite e sofisticate, abbiano perso di vista il sistema in cui è corretto collocare le norme.

In effetti nel disegno configurato attraverso le previsioni introdotte con il d.l. n. 18 del marzo 2020, in termini molto sintetici, a fronte dell’introduzione del menzionato vincolo sui licenziamenti, l’ordinamento ha offerto «a tutti i datori di lavoro la possibilità di sospendere i rapporti di lavoro, con intervento di strumenti di sostegno del reddito», per una durata grosso modo corrispondente a quella del divieto di licenziare[8].

Questi ultimi, come ben noto, erano – e restano – esplicitamente connessi alla pandemia (con specifica causale “emergenza Covid-19” e molteplici profili peculiari di disciplina e funzionamento)[9]. Fin dalle primissime disposizioni sono tuttavia anche stati individuati come gli unici in campo.

Perché su di essi sono stati fatti convergere anche i prestatori già sospesi e beneficiari del trattamento di integrazione salariale straordinario e dell’assegno di solidarietà; così come, secondo circolare applicativa, gli stessi «dipendenti sospesi di imprese dichiarate fallite»[10]. A fronte pertanto «di ragioni che … nulla avevano a che fare con il Covid-19»[11].

Con la causale “emergenza Covid-19” sono quindi transitate misure di sostegno del reddito anche quando non c’era, sullo stesso piano formale, alcuna connessione con la pandemia. Inoltre quando – non va dimenticato – l’impresa non aveva in alcun modo subito effetti negativi sulla propria attività a causa di quest’ultima.

Si tratta di ipotesi esplicitamente registrata dalle norme. Infatti sia l’art. 12, comma 3, lettera b), del d.l. n. 137 del 2020 che l’art. 1, comma 2, lettera b), del d.l. n. 104 del 2020 dispongono che continuino a fruire dei trattamenti pure «i datori di lavoro che non hanno avuto alcuna riduzione del fatturato» (richiedendosi però ora loro, come condizione per l’accesso alle «ulteriori … settimane di trattamenti» qui previste, un «contributo addizionale … pari … al 18 per cento della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore»).

D’altra parte, stando ai fatti, non appare una forzatura neanche dire che siano stati tollerati – e certo non decisamente combattuti – pure i comportamenti illeciti, probabilmente sullo stesso piano penale, di quei (non pochissimi) datori che, una volta ottenuto l’accesso agli ammortizzatori, hanno comunque richiesto ai propri dipendenti formalmente sospesi di continuare a prestare all’occorrenza – o anche sistematicamente – l’opera.

Di che tipo di rigorosa pregnanza fosse allora possibile parlare, a proposito della “causale covid-19”, tale da consentire il recesso per ragioni distinte dalla pandemia, nell’economia ed interpretazione dell’art. 14 del d.l. n. 104 – così analizzato in modo del tutto isolato dal contesto normativo ed applicativo di cui faceva parte; mentre altre imprese (se non, nei mesi precedenti agosto, le medesime che ora avrebbero desiderato licenziare …) avevano fruito largamente e con modalità del tutto a-selettiva degli strumenti di sostegno del reddito -, risulta davvero poco chiaro.

Mentre l’ipotesi che il datore non intenzionato a fruire né degli strumenti di sostegno del reddito né dell’esonero contributivo potesse, a partire dalla metà di agosto, tranquillamente licenziare avrebbe introdotto una evidente, profonda ferita all’equilibrio del sistema di disposizioni.

Perché non vi è dubbio sul fatto che, pur a fronte di un vincolo assai pregnante, a proposito del licenziamento, concernente i datori, questi ultimi siano stati nel complesso messi nelle condizioni di non pagarne il costo. Ed abbiano pure talora tratto da ciò, come le norme formalmente registrano a proposito di chi non ha avuto perdite di fatturato, occasioni di rafforzamento (se non di lucro).

Ebbene gli elementi di sostegno ed ausilio dei datori, generalizzati ed a-selettivi in identico modo, erano in toto rimasti pure nell’economia del d.l. n. 104 del 2020. Con l’unica significativa differenza dovuta al «contributo addizionale», ora richiesto alle imprese con una contenuta – o nessuna, come si diceva – riduzione di fatturato[12]. E con la possibilità aggiuntiva di fruire dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali, in alternativa ai trattamenti di sostegno del reddito[13].

Mentre altre importanti misure, consistenti sempre in esoneri dal versamento dei contributi previdenziali, ora in caso di assunzione a tempo indeterminato od a termine, erano previste agli artt. 6 e 7 del decreto. Si trattava di incentivi a propria volta a disposizione di tutti i datori: neanche condizionati, come normalmente stabilito da norme di questo genere, «alla realizzazione di un incremento occupazionale»[14].

Ebbene le tesi ora criticate evitano il confronto con gli esiti, talora paradossali ed iniqui, cui in applicazione delle stesse si sarebbe finiti con il giungere: ad es. quello di consentire ai datori, anche per nulla colpiti sul piano economico dalla pandemia, di licenziare alcuni prestatori e magari contemporaneamente assumerne altri, contando pure sui significativi vantaggi da ultimo descritti.

Occorre allora valutare con attenzione se la permanenza del divieto «non realizzerebbe un componimento sufficientemente equilibrato dei contrapposti interessi di rilievo costituzionale alla tutela dell’occupazione ed alla libertà di organizzazione dell’impresa»[15].

Anche a fronte dell’ipotesi in cui il singolo datore non avesse potuto prima di agosto – questo impedendo l’accesso all’esonero contributivo di cui all’art. 3 – né potesse in seguito fruire degli strumenti di sostegno del reddito.

Che per un verso è di scuola, riguardando – ammesso che si sia presentata – davvero poche situazioni. E sarebbe risultata a sua volta peraltro in piena continuità con quanto avvenuto fin da marzo.

Mentre per l’altro evidenzia sempre e comunque un approccio troppo riduttivo e limitato. Perché occorre ricordare che nel sistema di misure di sostegno riconosciute ai datori non sono mancati neanche interventi che hanno avvantaggiato questi ultimi, con risorse pubbliche, senza giustificazione alcuna: in numero senz’altro molto superiore a quello di chi (ipoteticamente) non abbia potuto accedere ad alcuna di esse. E nel sistema di interventi introdotto a tutela dei lavoratori il divieto di licenziamento si è comunque sempre accompagnato a diffuse e consistenti riduzioni del reddito, in presenza di intervento degli ammortizzatori sociali: anche quando i datori sono rimasti in bonis o hanno addirittura incrementato (anche grazie a questo) i profitti. E quindi – pur potendolo fare, grazie ad un noto e discusso recente orientamento giurisprudenziale[16] – non avrebbero (verosimilmente) licenziato.

Non pare quindi neanche necessario valorizzare la pur convincente tesi avanzata in dottrina – secondo cui, in estrema sintesi, nella considerazione dell’equilibrio costituzionale, occorre «tenere conto della complessità della disciplina emergenziale»[17] – per giungere alla conclusione che il disegno normativo distribuisca provvidenze, a beneficio di prestatori ma anche datori, in modo tutt’altro che iniquo.

Corretta e ragionevole – ma, a ben considerare, l’unica possibile, nel sistema delle misure connesse all’emergenza rappresentata dalla pandemia – risultava dunque l’interpretazione secondo cui, in carenza di fruizione delle integrazioni salariali ovvero dell’esonero contributivo, il divieto di recesso fosse stato prorogato al 31 dicembre 2020, «termine indirettamente ricavabile» dagli articoli 1 o 3 del decreto n. 104, «che lo pongono come momento ultimo di possibile fruizione» dei medesimi»[18].

Oggi il legislatore, dando implicitamente ragione a quest’ultima, si limita appunto a spostarlo (per ora) al 31 gennaio 2021.

 

3. Le eccezioni al divieto

E veniamo ora ad esaminare il perimetro in cui esattamente opera il divieto di licenziamento, alla luce delle esplicite eccezioni che oggi l’art. 12, ai co. 9 e 11, del d.l. n. 137 del 28 ottobre 2020 – ma già, con formula identica, l’art. 14, ai co. 1 e 3 del d.l. n. 104 del 2020 – prevede, rispetto ad un limite al potere di recesso che trova una sua giustificazione nell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale di cui all’art. 2 della Costituzione oltre che, in particolare, nella funzione sociale attribuita alle imprese dall’art. 41, comma 2, della Carta, salvo che il licenziamento non risulti ragionevole o necessario.

Può rientrare nella categoria della ragionevolezza della facoltà di licenziare un’eccezione, introdotta già con legge n. 27 del 2020, di conversione del d.l. n. 18 del marzo, relativa al «personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto».

Questa prima deroga trova una sua logica nel fenomeno di trasferimento del personale in caso di cambio d’appalto dal vecchio al nuovo appaltatore, che si verifica per tutti quei settori ed imprese in cui sono previste dalla contrattazione collettiva le cd. “clausole sociali”[19].

È evidente che ostacolare la risoluzione del primo contratto di lavoro pregiudicherebbe l’attivarsi del secondo e verrebbe quindi a danneggiare, anziché favorire, i dipendenti stessi.

Le altre tre eccezioni al divieto (denominato nel testo “preclusione”) di avvio delle procedure di cui alla legge n. 223 del 1991 nonché di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ed alla loro continuazione, se già avviate al 23 febbraio 2020) le rinveniamo nel comma 11.

Le (sole) deroghe al divieto qui previste (che vanno ad aggiungersi a quella del comma 9 relativa all’ipotesi di cambio di appalto) riguardano:

a) i licenziamenti «motivati dalla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, conseguenti alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività»;

b) le ipotesi di «accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo»;

c) i «licenziamenti intimati in caso di fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione»[20].

Le ipotesi di cui alle lettere a) e c) sono accumunate dalla ineluttabilità della risoluzione dei rapporti determinata dalla totale e definitiva cessazione dell’attività di una società posta in liquidazione o di un datore di lavoro fallito[21].

 

3.1. La cessazione definitiva dell’attività ed il fallimento dell’impresa

Per quanto riguarda le imprese sub a) la disposizione espressamente prevede che, ove il datore di lavoro prosegua, anche in parte, l’attività – ad esempio chiudendo solo una unità produttiva – i licenziamenti non siano consentiti.

Questo può avvenire, per espressa indicazione di legge, anche in caso di cessione dei beni o attività totale o parziale (ramo d’impresa) ex art. 2112 c.c.: in questa ipotesi, come noto, i rapporti di lavoro proseguono con il cessionario e i lavoratori conservano il diritto a vedersi applicare i trattamenti economici e normativi previsti dal contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa subentrante[22].

A proposito invece dell’ipotesi sub c) va ricordato che l’art. 2, co. 70, della legge n. 92 del 28 giugno 2012, aveva previsto l’abrogazione dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991 e l’intervento della Cigs concorsuale a far data dal 1° gennaio 2016, così eliminando per i curatori fallimentari la possibilità di ricorrere alla Cigs. Ciò li ha indotti, anche nell’ipotesi di apertura di una procedura di licenziamento collettivo, a sospendere i dipendenti dal lavoro senza continuità di reddito in (controversa[23]) applicazione dell’art. 72 della legge fallimentare.

E’ poi intervenuto il d.l. n. 109 del 28 settembre 2018 (c.d. “Decreto Genova”) che ha reintrodotto (seppure solo per 12 mesi e per gli anni 2019-2020) la cassa per cessazione. Estendibile anche alle procedure liquidatorie ma solo in presenza di concrete prospettive di cessione dell’attività con riassorbimento occupazionale, secondo le disposizioni del Ministero del lavoro[24], oppure laddove fosse possibile realizzare interventi di reindustrializzazione del sito produttivo e rioccupazione attraverso specifici percorsi di politica attiva del lavoro organizzati e gestiti dalle Regioni.

Poiché tuttavia durante la pandemia i curatori non sono evidentemente quasi mai in condizione di programmare una cessione di azienda (tanto che nella primavera-estate del 2020 sono state anche sospese le aste), considerato lo stallo, sarebbe stato opportuno prevedere esplicitamente l’accesso agli strumenti di sostegno del reddito per le imprese anche a fronte di procedure concorsuali. Le quali, pur generate da fattori diversi dalla pandemia, subivano comunque l’effetto del blocco economico/sanitario. Sommando ad una situazione di crisi una ulteriore crisi, con gravi conseguenze per i lavoratori.

Proprio questo, alla luce dei problemi evidenziati, è poi tuttavia stato disposto, anche se solo con circolare del Ministero del lavoro[25]. In tal modo intervenendosi a beneficio di lavoratori sospesi, ai sensi dell’art. 72 della legge fallimentare, e completamente privi di strumenti di sostegno del reddito.

Se è vero tuttavia che – come chi scrive, tra gli altri, sostiene – le disposizioni in commento presuppongono una stretta connessione tra divieto di licenziamento ed accesso agli ammortizzatori sociali, parrebbe corretto farne conseguire che il divieto di licenziamento operi anche per i dipendenti di imprese fallite (ove non sia previsto ovvero sia cessato l’esercizio provvisorio), quando siano sospesi, con fruizione degli strumenti di sostegno del reddito.

E forse potrebbe giungersi a tale conclusione – volta ad individuare una eccezione alla eccezione in discussione, con ritorno di operatività, secondo logica, della regola generale – in via interpretativa: non tanto valorizzando (l’inesistente) valore giuridico della circolare, quanto il puro e semplice fatto dell’intervento di tali strumenti.

 

3.2. Gli accordi collettivi aziendali di incentivo alla risoluzione del rapporto

Desta particolare interesse la terza eccezione (lett. b), graficamente collocata, nel terzo comma, in mezzo alle altre due, relativa agli accordi di incentivo.

Va innanzi tutto detto che non si considera, una simile ipotesi, di scarsa tutela del lavoro, presupponendo essa “due fasi” per pervenire alla risoluzione del rapporto: una prima di accordo sindacale a contenuto obbligato, che può prevedere solo un esodo volontario incentivato; una seconda, a livello individuale, di adesione al citato accordo[26].

Gli accordi devono essere raggiunti con le associazioni sindacali «comparativamente più rappresentative» a livello nazionale (e quindi con le loro espressioni territoriali), non risultando quindi espressamente prevista la presenza anche delle rappresentanze interne (Rsa o Rsu)[27].

La formulazione del testo («dalle organizzazioni sindacali» anziché «da organizzazioni sindacali») induce a rilevare una sottolineata predilezione del legislatore per accordi “non separati”, anche se logica vuole che se in una realtà aziendale sia presente una sola organizzazione sindacale giocoforza sarà quella a stipulare l’accordo. Salvo quanto si dirà sulla necessità o meno di avviare la procedura di licenziamento collettivo (legge n. 223 del 1991) o individuale (art. 7, legge n. 604 del 1966).

Sorgono infatti alcuni problemi sulle modalità richieste per dare attuazione alla norma, avendo diversi autori perentoriamente sostenuto l’esonero dalla procedura di cui alla legge n. 223 del 1991[28].

Invero la lettura delle disposizioni di legge non giustifica simili conclusioni. Il terzo comma afferma che in caso di accordo collettivo «le preclusioni e le sospensioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano». Ebbene ciò che i commi citati precludono, nel caso del comma primo, è dunque propriamente l’avvio della procedura di cui agli artt. 4, 5 e 24 della legge n. 223 del 1991 (o la continuazione della stessa, se già iniziata), che – conseguentemente – a nostro avviso dovrebbe essere avviata o continuata[29], coinvolgendo quindi anche Rsu e/o Rsa, con riferimento però solo ai lavoratori che aderiscano all’accordo collettivo.

Esiste del resto la possibilità – e nella prassi ciò spesso avviene – di aprire una procedura di licenziamenti collettivi avendo già concordato prima il contenuto dell’accordo (specie quando l’unico criterio di scelta è la non opposizione al licenziamento) e concluderla anche il giorno successivo.

Comunque, a fronte del “doppio controllo” dato dall’accordo sindacale che fissa le condizioni per l’esodo (volontarietà e – si presume – ammontare dell’incentivo) e dalla adesione allo stesso da parte del singolo dipendente interessato, potrebbe non esserci interesse a sollevare un eventuale “vizio di forma” per mancato ricorso alla procedura.

D’altra parte, sia pure in contesto non identico ma certo tangenziale in questo caso, si rammenta che l’ordinamento attribuisce ai contratti collettivi funzioni di sanatoria, ai sensi dell’art. 4, co. 12, della legge n. 223 del 1991, così come modificato dalla legge n. 92 del 2012[30].

Non riteniamo pertanto di dissentire da chi si dichiara “possibilista” sull’eventualità che si sottoscrivano accordi collettivi che disciplinino direttamente gli accordi di risoluzione consensuale «senza passare per le procedure di licenziamento individuale o collettivo che pure, come detto, sembrano la strada chiaramente indicata dalla disposizione»[31].

Si osserva dunque che l’accordo di cui al comma undici non comporta necessariamente una risoluzione consensuale. Anzi, nelle prassi più virtuose delle procedure di licenziamento collettivo simili a quelle sopra citate, gli accordi sindacali non trasformano l’atto unilaterale del datore di lavoro in una risoluzione consensuale (per la quale, tra l’altro, non sarebbe neppure necessaria una deroga al divieto).

Il caso di risoluzione consensuale dovrà essere oggetto di contrattazione, considerando i vantaggi che il datore di lavoro persegue non corrispondendo l’indennità sostitutiva del preavviso (che nella risoluzione consensuale ovviamente non è dovuta da alcuna delle parti).

Nello stesso tempo sembrerebbe che per usufruire della Naspi, sempre in caso di risoluzione consensuale, non sia necessario essere in possesso dei requisiti previsti dall’art. 3 del d. lgs. n. 22 del 2015[32], attribuendosi un significato all’avverbio utilizzato («è comunque riconosciuto») dalla norma[33]. Aderendo a questa prospettiva per i lavoratori sprovvisti dei requisiti sarebbe in effetti più vantaggiosa la risoluzione consensuale del licenziamento.

Il contenuto dell’accordo dovrebbe prevedere solo l’opportunità, per i dipendenti che decidano di aderirvi, di risolvere il rapporto di lavoro a fronte di incentivi che dovrebbero essere, preferibilmente, definiti in astratto, con riferimento a situazioni tipizzate (in via meramente esemplificativa, la maturazione del diritto al pensionamento di anzianità o vecchiaia entro una certa data).

Ove nell’accordo non siano introdotte condizioni, il diritto dei lavoratori di usufruire di quanto previsto non incontrerà limitazioni. È però molto più probabile – e la legge non lo vieta – che le aziende impongano una clausola che consenta loro di valutare discrezionalmente le domande anche sulla base delle proprie esigenze.

Da ultimo si osserva come, ai sensi dell’art. 14 del d. lgs. n. 151 del 2015, per ottenere benefici contributivi o fiscali e «altre agevolazioni connesse con la stipula di contratti aziendali o territoriali» questi ultimi debbano essere depositati telematicamente al Ministero del Lavoro entro trenta giorni dalla sottoscrizione. È stata autorevolmente sostenuta l’applicabilità della disposizione per gli accordi sindacali di incentivo in commento, dal momento che essi consentono – in via di eccezione rispetto alle disposizioni generali – di usufruire della Naspi anche in caso di risoluzione consensuale del rapporto[34].

 

4. Brevi conclusioni

Conclusivamente l’emergenza epidemiologica Covid-19 ha creato le condizioni per un intervento in materia di licenziamenti del tutto inedito (salvo il periodo dell’immediato dopoguerra) ed inimmaginabile fino all’inizio della primavera di quest’anno, con un sostanziale divieto di licenziare, se non per motivi disciplinari e/o giustificati da cessazione totale dell’attività.

Intervento insolito anche per   l’ampio raggio di applicazione del divieto sotto il profilo delle dimensioni occupazionali, da sempre occasione di “differenziazione” delle tutele: in questo il governo ha indubbiamente dimostrato una lodevole capacità di ascolto delle istanze sindacali in rappresentanza di tutti i lavoratori occupati.

Auspichiamo che, così come il legislatore intende cogliere l’occasione per una complessiva riforma degli ammortizzatori sociali, si possa ugualmente intervenire per rimettere a punto la stessa disciplina dei licenziamenti, superando le farraginose soluzioni date dalla riformulazione dell’art. 18 legge n. 300/1970 da parte della cd. legge Fornero n. 92/2012 e, ancor più, quelle criticatissime (e parzialmente censurate dalla stessa Corte costituzionale) e inique del Jobs Act (d.lgs. n. 23/2015).

La pandemia ci ha infatti insegnato che i due istituti (ammortizzatori sociali e licenziamenti) possono e debbono agire in connessione tra loro, nella ricerca di quell’equilibrio tra lavoro e impresa che – come è provato dalle disposizioni in commento – può essere trovato.

[1] Il decreto è poi stato convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27 del 24 aprile. Quindi ulteriormente modificato dal d.l. n. 34 del 19 maggio, a sua volta convertito con legge n. 77 del 17 luglio. La norma introdotta in marzo ha così operato senza soluzione di continuità (salvo il problema dovuto all’entrata in vigore del d.l. n. 34, alcuni giorni dopo la scadenza del divieto stabilito dal primo disposto …), fino all’entrata in vigore del d.l. n. 104 del 14 agosto 2020, quando si pongono i problemi interpretativi di cui si dirà. Sul disposto di marzo cfr. M. T. Carinci, Covid-19 e “blocco” dei licenziamenti: ratio, limiti e opportunità di una misura in bilico tra il primo e il secondo comma dell’art. 41 Cost., in DLRI, 2020, p. 571; U. Gargiulo, V. Luciani, Emergenza Covid-19 e “blocco” dei licenziamenti, in O. Bonardi, U. Carabelli, M. D’Onghia, L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Ediesse, 2020, p. 205 ss.; F. Scarpelli, Blocco dei licenziamenti e solidarietà sociale, in RIDL, 2020, I, p. 313 ss..

[2] Così F. Scarpelli, Proroga del blocco dei licenziamenti. Per favore diamone interpretazioni ragionevoli, in Comma2.it. 20 agosto 2020.

[3] Si tratta del comma 4 dell’art. 14, dove era scritto: «Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nell’anno 2020, abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggi o1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale, di cui agli articoli da 19 a 22-quinquies del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro». Il comma quattro è poi stato eliminato nella legge di conversione n. 126 del 13 ottobre 2020.

[4] Secondo A Maresca, Il divieto di licenziamento per Covid è diventato flessibile (prime osservazioni sull’art. 14, DL. n. 104/2020), in Labor, 2020 «Chi intendesse farsi carico di tali rischi» (rischi del contenzioso giudiziario, precisa l’autore) «dovrebbe valutarli anche alla stregua della singolarissima norma di cui all’art. 14 co. 4 che propone un’ancor più singolare e generosa (per non dire incentivante) via d’uscita». Cfr. l’approfondimento dedicato all’istituto sempre dall’A. in La socializzazione dei costi della speciale revoca del licenziamento per G.M.O. nell’art. 14 DL n. 104/2020, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, aggiornato al 21 settembre 2020.

[5] Il testo, recante in rubrica «Proroga delle disposizioni in materia di licenziamenti  collettivi  e individuali per giustificato motivo oggettivo», prevedeva esattamente nei primi due commi che «Ai datori di lavoro che non abbiano integralmente fruito dei trattamenti di integrazione salariale  riconducibili  all’emergenza epidemiologica da COVID-19 di cui all’articolo 1 ovvero  dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali di cui all’articolo 3 del presente decreto resta precluso l’avvio delle procedure di  cui  agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23  luglio  1991,  n.  223 e restano altresì sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell’appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto di appalto. Alle condizioni di cui al comma 1, resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n.  604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all’articolo 7 della medesima legge». Cfr. su di esso, tra le molte riflessioni, oltre a quelle già citate, S. Cagliano, P. Staroli, Decreto Agosto: quando alla flessibilità non corrisponde a semplicità, le criticità legate al divieto di licenziamento, alla proroga degli ammortizzatori COVID-19 e all’esonero dei contributi previdenziali, in Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, consulentidellavoro.it, 25 agosto; R. Cosio, La proroga del blocco dei licenziamenti. La compatibilità con l’ordinamento dell’Unione Europea, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, aggiornato a 26 settembre 2020; F. D’Avanzo, F. Ferretti, Decreto agosto: le principali novità in materia di diritto del lavoro, in quotidianogiuridico.it, 18 agosto; G. Falasca, Lavoro, licenziamenti anche a settembre per chi ha fatto pochi giorni di Cig, in Il sole 24 ore del 19 agosto 2020; E. Massi, Divieto di licenziamento, termine mobile per le aziende in Ipsoa Quotidiano del 27 agosto 2020; A. Piccinini, S. Mangione, Decreto Agosto, c’è grande confusione sul blocco dei licenziamenti: ecco perché in Il Fatto Quotidiano, Blog Area Pro Labour del 9 settembre 2020; F. Scarpelli, I licenziamenti economici come (temporanea) extrema ratio: la proroga del blocco nel d.l. n. 104/2020, in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, aggiornato al 23 settembre 2020; C. Tucci, Da oggi licenziamenti possibili in sei casi, in Il sole 24 ore del 18 agosto 2020; M. Verzaro, Le condizionalità  del divieto di licenziamento nel Decreto Agosto in LDE, 2020, p. 3; A. Zambelli, Decreto Agosto: esiste davvero un divieto generalizzato di licenziare?, in GL, 2020, n. 35, p. 19.

[6] Cfr. A. Maresca, Il divieto di licenziamento per covid …op. cit.; M. Verzaro, op. cit., 3; A. Zambelli, op. cit.. Contra A. Piccinini, S. Mangione, op. cit., e F. Scarpelli, opp. citt..

[7] Cfr. A. Maresca, op. ult. cit. nonché A. Zambelli, opp. citt. Contra A. Piccinini, S. Mangione e F. Scarpelli, opp. citt.. Vedi pure B. Caruso, Pubbliche amministrazioni e imprese italiane nella crisi pandemica: tra vizi antichi e possibile resilienza, in QG, 2020, p. 2.

[8] Cfr. A. Lassandari, Rapporti sospesi e modelli crollati?, in LD, 2020, p. 161.

[9] Cfr. M. Faioli, COVID-19 e istituti speciali di sostegno al reddito, in Covid-19 e diritti dei lavoratoriop. cit., p. 167.

[10] Vedi infra il paragrafo 3.1.

[11] Così A. Lassandari, op. cit., p. 161 ss.

[12] Cfr. oggi in materia l’art. 12, comma 1, del d.l. n. 137 del 2020.

[13] Si veda oggi l’art. 12, co. 14, del d.l. n. 137 del 2020.

[14] Così F. Scarpelli, I licenziamenti economici, cit., p. 9.

[15] Cfr. A. Maresca, Il divieto di licenziamento …op. cit..

[16] Vedi Cass. 1° luglio 2016, n. 13516, e 27 dicembre 2016, n. 25201. Cfr. da ultimo Cass. 20 luglio 2020, n. 15400.

[17] Cfr. F. Scarpelli, op. ult. cit., p. 4 e p. 8 ss..

[18] Si veda sempre F. Scarpelli, op. ult. cit., p. 10.

[19] Clausole di questo tipo sono spesso riconducibili alla figura del contratto a favore di terzo disciplinato dall’art. 1411 c.c.. Vedi ad es.  l’art.  42 bis CCNL Merci Logistica; l’art. 4 CCNL Multiservizi; l’art. 37 CCNL Cooperative Sociali; l’art. 25 CCNL vigilanza privata.

[20] Nel caso in cui l’esercizio provvisorio sia disposto per uno specifico ramo dell’azienda, è consentito il licenziamento degli addetti ai settori non compresi nello stesso.

[21] Si evidenzia che, riguardando le procedure di liquidazione esclusivamente i datori di lavoro che abbiano una forma societaria, ne resterebbero esclusi gli altri.

[22] Recentemente la Corte di Cassazione è intervenuta – con sentenze nn. 10414 e 10415 del 1° giugno 2020 –  interpretando il comma 4 bis dell’art. 47 L. n. 428 del 1990, introdotto dalla l. n. 166 del 2009, in attuazione della Direttiva UE 2001/23 – nel senso che, persino in presenza di uno stato di crisi accertato che preveda la continuazione o la mancata cessazione dell’attività, un accordo sindacale non possa derogare alle disposizioni di cui all’art. 2112 c.c., non essendo consentito alle parti sociali di disporre dell’occupazione preesistente al trasferimento di impresa.

[23] Cfr. A. Lassandari, I licenziamenti e le procedure concorsuali, in VTDL; 2018, p. 45 ss. nonché in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT – 354/2018.

[24] Cfr. la circolare del Ministero del lavoro, n. 15 del 4 ottobre 2018.

[25] Si tratta della circolare del Ministero del lavoro, n. 38 dell’8 marzo 2020. Qui è stabilito che «in considerazione della eccezionale sospensione delle attività industriali e commerciali disposta allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del contagio, l’integrazione salariale in deroga di cui all’art. 22 può essere riconosciuta anche in favore di lavoratori che siano tuttora alle dipendenze di imprese fallite, benché sospesi».

[26] A. Perulli parla di «un nuovo tipo di contratto collettivo aziendale che potremmo classificare come autorizzatorio». Vedi Rapporto di lavoro sciolto se si firma l’accordo sindacale, in Il Sole 24 Ore del 28 agosto 2020.

[27] È opinione di chi scrive che la partecipazione sia alla trattativa che all’accordo da parte delle rappresentanze sindacali, se presenti in azienda, sarebbe più che opportuna.

[28] Cfr. A. Bottini, Uscite incentivate sostenute dalla Naspi, in Il Sole 24 Ore del 31 agosto 2020. Conforme A. Maresca, Gli accordi aziendali di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro nell’art. 14, co. 3 DL n. 104/2020; l’alternativa realistica al divieto di licenziamento per Covid in Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, aggiornato all’8 settembre 2020.

[29] Ritengono che debba aprirsi la procedura A. Piccinini, S. Mangione, op. cit.; F. Aiello, Deroghe al blocco dei licenziamenti, l’accordo collettivo aziendale di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro: brevi osservazioni suscitate da una lettura testuale in Comma2, 15 settembre 2020; F. Scarpelli, I licenziamenti economici …, cit. p. 12.

[30] L’accordo collettivo aziendale di incentivo raggiunto senza procedura potrebbe quindi, forse, avere un contenuto di sanatoria in merito all’esonero dalla procedura stessa.

[31] Vedi F. Scarpelli, op. ult. cit..

[32] Cioè di tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti e almeno trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi che precedono la disoccupazione.

[33] Cfr. F. Scarpelli, op. ult. cit.

[34] In questi termini E. Massi, op. cit..

[**]

Alberto Piccinini, avvocato del Foro di Bologna, giuslavorista

Andrea Lassandariprofessore ordinario di diritto del lavoro, Università di Bologna (sede di Ravenna)

Share This