di Alberto Piccinini

La sentenza con cui la Corte di Cassazione respinge il ricorso di SATA,  confermando definitivamente  la illegittimità e antisindacalità dei licenziamenti di Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli del luglio 2010, è innanzi tutto una lezione di diritto sulle caratteristiche del ricorso per cassazione.

 Gran parte, infatti, dei sette motivi di ricorso proposti da SATA  vengono considerati “inammissibili” perché mostrano “di volere allargare il sindacato della Corte di cassazione al di là dei limiti fissati dalla legge, per investire valutazioni di merito che non possono essere riformulate in sede di giudizio di legittimità”.

In ogni caso la Corte non evita di valutare la dinamica dei fatti – così come accertata nel corso del processo – su quanto avvenuto il 7 luglio 2010 in occasione dello sciopero proclamato dalla Rappresentanza Sindacale Unitaria dello stabilimento SATA di Melfi sulle UTE del reparto montaggio dalle 1,45 alle 3,00 di notte.

In quell’occasione due capi UTE, intorno alle 2,20,  trovarono circa 40-50 lavoratori aderenti allo sciopero, e tra essi numerosi rappresentanti di tutte le sigle sindacali, che stazionavano sul tragitto dei carrellini AGV che servono al rifornimento delle linee, di fronte ad un carrellino già fermo. Dopo aver invitato i lavoratori a spostarsi per sentirsi rispondere che erano in assemblea, i due capi telefonavano al Gestore Operativo e al Responsabile del Personale che, sopravvenuti, iniziavano una discussione dapprima con il delegato della FIOM Lamorte, e successivamente con il delegato della stessa organizzazione Barozzino e con l’iscritto Pignatelli. La discussione si innalzò nei toni quando il Gestore Operativo minacciò di licenziamento Pignatelli e i due sindacalisti affermarono che non aveva alcuna autorità. In buona sostanza, secondo quanto accertato dalla Corte d’Appello, la discussione che ha coinvolto solo quelli della FIOM, mentre gli altri scioperanti progressivamente si allontanavano,  avrebbe avuto una durata di 5-6 minuti (per la Sata di 7-10: in realtà durò un paio di minuti, essendo pacifico che alle 2,30 tutto era terminato).

La Corte di  Cassazione ritiene infondata la censura alla sentenza della Corte d’Appello di Potenza che – secondo SATA – avrebbe “confuso la pacifica (ed accertata) esistenza e rilevanza della coscienza e volontà dei tre lavoratori nell’attuare l’ostacolo al transito dei carrelli e nel perpetuarlo nonostante l’intervento della gerarchia aziendale , con la premeditazione dell’atto, la quale ultima pur se mancante (e nel caso di specie è stata esclusa) non esclude affatto la volontarietà e quindi il dolo costituendone soltanto un’ipotesi aggravata”.

Spiegano infatti i giudici della Cassazione che la sentenza di secondo grado “non confonde premeditazione (esclusa da tutti, anche dagli scritti difensivi dell’azienda) con volontarietà (coscienza e volontà) del comportamento, ma segue un ragionamento diverso, avendo accertato e motivato che il permanere dei tre per 5-6 minuti in più rispetto agli altri aderenti allo sciopero nella zona di passaggio dei carrelli, oltre a non essere stato un fatto premeditato, non fu neanche determinato dalla “volontà diretta deliberatamente ad impedire l’attività produttiva” … perché fu cagionato dalla discussione sviluppatasi con il T. ed il TR. che avevano assunto i sindacalisti FIOM come interlocutori”.

Precisa ancora la sentenza della Cassazione: “La Corte (d’Appello: ndr) non afferma che lo stazionamento dei tre nella zona di passaggio dei carrelli fu inconsapevole, ma afferma che in quell’area stazionò a lungo un gruppo di alcune decine di lavoratori in sciopero e che il permanere dei tre, per alcuni minuti aggiuntivi, fu determinato dalla discussione sviluppatasi con alcuni  esponenti della gerarchia aziendale”.

Per quanto riguarda, infine, la denuncia di “carente, contraddittoria e omessa motivazione sulla … asserita sostanziale equivalenza dei comportamenti di tutti gli scioperanti compresi i tre lavoratori licenziati” – affermazione che per la SATA  sarebbe “la più stravagante, illogica, incongrua e incomprensibile dell’intero iter decisionale della sentenza” –  i giudici di Cassazione, dopo aver evidenziato che i tre si erano trattenuti qualche minuto in più degli altri “per una ragione specifica, esaminata e ritenuta idonea dalla Corte … a spiegare quel comportamento e comunque inidonea a giustificare il loro licenziamento in tronco”, così concludono:

“Se questo è il quadro comparativo, le considerazioni della Corte sulla differenza di trattamento dei tre licenziati rispetto a tutti gli altri lavoratori, che avevano scioperato stazionando in quella medesima zona e non sono stati destinatari di una sia pur lieve sanzione disciplinare, non possono essere ritenute illogiche ed immotivate”.

La Corte di Cassazione ha quindi messo a fuoco la vera questione che ha trovato, nell’episodio dei tre licenziati di Melfi di tra anni fa, il pretesto per un attacco senza precedenti da parte della dirigenza FIAT all’organizzazione sindacale più rappresentativa nel settore metalmeccanico, iniziato con il tentativo dell’eliminazione dei suoi delegati (discriminandoli, nell’esercizio del potere disciplinare, rispetto a quelli delle altre organizzazioni), proseguito con il tentativo di ostacolare il versamento dei contributi sindacali alla FIOM da parte degli iscritti, e concluso con la scelta dell’istituto delle RSA in luogo delle RSU, nella speranza che una certa interpretazione dell’art. 19 dello Statuto dei lavoratori consentisse la non agibilità dei diritti sindacali da parte della FIOM.

Come è noto anche tale ultimo tentativo è stato neutralizzato dall’intervento della Corte Costituzionale (sentenza 23 luglio 2013) che ha preceduto, appena di una settimana, la decisione in commento. Parimenti i giudici di merito, con decine di sentenze, hanno ripristinato i diritti della FIOM che si volevano aggredire.

La famosa “via giudiziaria” che la FIOM è stata accusata di voler proseguire ha costituito, semplicemente, un percorso di legittima difesa reso necessario dall’ostinatezza con cui la FIAT ha fino ad oggi cercato di prevaricare, confidando sulla supremazia dei propri mezzi finanziari. Potrebbe essere giunto il momento, per i dirigenti del Lingotto,  di un cambio di strategia?

Un primo segnale di distensione potrebbe certamente essere quello di dare finalmente attuazione all’ordine di reintegrazione  dei tre licenziati di Melfi, ordine fino ad oggi ignorato “nell’attesa della decisione della Cassazione”. Ora non ci sono più scuse per tenere a casa dei lavoratori pagando lo stipendio senza consentire loro di lavorare: scelta che, tra l’altro, appare incongrua ed incomprensibile sotto ogni logica imprenditoriale.

Bologna, 1 agosto 2013

Sentenza Corte di Cassazione del 31 luglio 2013, n. 18368

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