Forma del licenziamento
e procedura per il giustificato motivo oggettivo
in ambito di applicabilità dell’art. 18[1]

Alberto Piccinini

Modifiche alla legge 15 luglio 1966, n. 604 da parte della Legge n. 92 del 2012 e della Legge 9 agosto 2013 , n. 99, di conversione del decreto legge 28 giugno 2013, n. 76     

 Il comma 6 dell’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604  e successive modificazioni e’ sostituito dal seguente:  «6. La procedura di cui al  presente  articolo  non  trova  applicazione  in  caso  di licenziamento  per  superamento  del  periodo  di  comporto  di   cui all’articolo 2110 del codice civile, nonché per i licenziamenti e le interruzioni del rapporto di lavoro  a  tempo  indeterminato  di  cui all’articolo 2, comma 34, della legge  28  giugno  2012,  n.  92.  La stessa procedura, durante la quale le parti,  con  la  partecipazione attiva della commissione di cui al comma 3,  procedono  ad  esaminare anche soluzioni alternative  al  recesso,  si  conclude  entro  venti giorni dal momento in cui la Direzione  territoriale  del  lavoro  ha trasmesso la convocazione per l’incontro, fatta  salva  l’ipotesi  in cui le parti, di  comune  avviso,  non  ritengano  di  proseguire  la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo. Se  fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorso il termine di  cui al comma 3, il datore di lavoro può comunicare il  licenziamento  al lavoratore. La mancata presentazione di una o entrambe  le  parti  al tentativo  di  conciliazione  e’  valutata  dal  giudice   ai   sensi dell’articolo 116 del codice di procedura civile.».

Sommario: 1. La modifica dell’art. 2 della l. n. 604 del 1966. – 2. La procedura per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. – 3. Termini per l’impugnazione giudiziale.

  1. La modifica dell’art. 2 della l. n. 604 del 1966 da parte della legge n. 92/2012 –

 

Con il comma 2 dell’art. 2 della l. n. 604 – come sostituito dall’art. 1, comma 37, della legge n. 92/2012  – si prevede non solo l’obbligo di forma scritta, ma anche quello della contestuale specificazione dei motivi (che non potranno, quindi, essere indicati in termini generici)[2].

Ma un licenziamento (legittimo) intimato prima di una procedura non è ipotizzabile:

a)       per i datori di lavoro di qualunque dimensioni, in caso di  licenziamento per motivi soggettivi o giusta causa (“ontologicamente” disciplinari) dovendo esso essere preceduto da una preventiva contestazione dei fatti, e quindi dei motivi (visto che l’art. 7 Stat. lav. considera illegittimo ogni provvedimento disciplinare irrogato prima di aver contestato l’addebito e concesso i termini a difesa);

b)       per i datori di lavoro con  più di 15 dipendenti nell’ambito del comune o 60 complessivamente anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, perché detta motivazione dovrà essere fornita prima con la lettera di apertura della procedura ex art. 7 legge 604/1966, e quindi con la comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro – e per conoscenza al lavoratore – dell’intenzione di licenziare.

Poco prima dell’uscita della legge Fornero – ed anche subito dopo – era stato prospettato, da certa dottrina, il pericolo  che potesse esserci  la consapevole scelta da parte di un datore di lavoro di porre in essere un licenziamento inefficace perché (volutamente) privo di motivazione, con il premeditato scopo di incorrere solo nelle sanzioni previste dal nuovo comma 6 dell’art. 18 Stat. lav. [come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b) della l. n. 92/2012], magari con la riserva mentale di «scoprire le carte» nell’eventuale giudizio sulla ingiustificatezza. Si era suggerito – per mettersi al riparo da tanta, eventuale, spregiudicatezza – di  continuare a richiedere, con l’impugnazione extra-giudiziale del licenziamento, la precisazione dei motivi, anche se la legge non lo prevede più. Ma un simile espediente risulta superfluo in quanto a nostro avviso non aver indicato il fatto posto alla base del licenziamento né nella prima comunicazione (in caso di procedura per GMO) né nella lettera di contestazione disciplinare (in caso di licenziamento disciplinare) e non averlo indicato neppure nella lettera di recesso dovrà essere valutato dal magistrato come una reiterata volontà di eludere la legge: nel momento in cui essa richiede la valutazione di un fatto, l’indicazione tale fatto di non può essere legittimamente omessa. Nel caso in cui la motivazione sia contenuta nella (sola) lettera  di licenziamento ci troveremmo di fronte a un motivo nuovo. In entrambi questi casi la condotta datoriale sarà alla base del giudizio del magistrato nel successivo processo sotto il profilo del comportamento delle parti e dovrebbe comportare, rispetto a quella di cui alla prima parte  del comma 6 (indennità da sei a dodici mensilità)  le più  incisive sanzioni di cui alla seconda parte del comma 6 (quelle previste dai commi 4, 5 e 7).

Si era, da parte nostra, auspicato un’applicazione del principio dell’immutabilità dei motivi anche… al non motivo, così impedendo al datore di aggiungerne di ulteriori rispetto a quelli volutamente non forniti. Sul punto la dottrina (Carinci 2013) pronostica «una qualche allergia da parte dei giudici a far propria una lettera per la quale un datore di lavoro che abbia omesso in tutto od in modo rilevante di svolgere la previa procedura o di redigere la contestuale motivazione, possa costituirsi in giudizio come nulla fosse, col solo costo in partenza di una indennità risarcitoria debole».  L’Autore ipotizza che i giudici possano sollevare anche d’ufficio un’eccezione di costituzionalità o proporre un’interpretazione adeguatrice. Conclude il proprio ragionamento suggerendo una lettura del comma 6 alla luce del comma 4, che porti a «non ammettere il datore di lavoro ad assolvere l’onere della prova a suo carico, ritenendo ipso facto insussistente il “fatto contestato” … perché non contestato»: troviamo quindi autorevole conferma della tesi che il principio di immutabilità comporti una equiparazione del non motivo al concetto di insussistenza del motivo stesso.

  1. La procedura per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (art. 7 l. n. 604/1966). –

La legge Fornero è intervenuta in materia di giustificato motivo oggettivo (GMO) sotto un triplice profilo: procedurale, di forma e sostanziale. In particolare si è modificato l’art. 7 della l. n. 604/1966, prevedendo che il datore di lavoro con più di 15 addetti nella sede o nel Comune (o più di 60 complessivamente), che intenda porre in essere un licenziamento individuale o plurimo (purché relativo a meno di quattro unità) per GMO debba preventivamente comunicarlo alla Direzione territoriale del lavoro (DTL) e per conoscenza all’interessato, indicando «i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato» (comma 2).

La DTL trasmette alle parti, nel termine «perentorio» di 7 giorni, la convocazione avanti alla Commissione provinciale di conciliazione: per quanto concerne la convocazione al lavoratore, questa si dà per conosciuta se indirizzata al domicilio «ufficiale» (quello comunicato al datore di lavoro) o se ricevuta a mano.

Decorso invano il termine di sette giorni per la trasmissione, da parte della DTL, della convocazione al datore di lavoro e al lavoratore – e quindi in caso di omessa o tardiva comunicazione – «il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore».

Per quanto concerne la convocazione al lavoratore, questa si dà per conosciuta se indirizzata al domicilio «ufficiale» (quello comunicato al datore di lavoro) o se ricevuta a mano.

In Commissione  le parti potranno farsi assistere da un sindacalista, un avvocato o un consulente del lavoro. La procedura, nel corso della quale dovranno valutarsi «anche soluzioni alternative al recesso» (comma 6), si conclude entro 20 giorni dalla data di convocazione, salvo concorde rinvio per definire un eventuale accordo e salvo «legittimo e documentato impedimento del lavoratore» (comma 9): in tale ultimo caso la procedura può essere sospesa per non più di quindici giorni. Alla sua conclusione, il datore di lavoro potrà comunicare il licenziamento al lavoratore (anche se – si è sostenuto – avrebbe potuto farlo pure in caso di inosservanza, da parte della DTL, del termine perentorio di 7 giorni per l’invio della convocazione).

Il procedimento ha in qualche modo allineato  il nostro ordinamento a quelli europei: si segnala che, oltre al più volte citato modello tedesco, anche il legislatore francese accoglie una soluzione simile, laddove impone l’onere di informare le rappresentanze dei lavoratori in azienda e l’autorità amministrativa in ogni caso di licenziamento «per motivo economico», sia individuale che collettivo.

La nuova procedura, nel suo testo originario – prima degli emendamenti nel passaggio dal Senato alla Camera che l’hanno svuotata di significato – per la prima volta poneva un limite effettivo all’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro individuale o plurimo fino a quattro addetti, analogo a quello previsto in caso di denunciato esubero di più di cinque unità in cui va attivata la procedura di mobilità disciplinata dagli artt. 4 e 24 della l. n. 223/1991, rendendola cosa diversa dal vecchio tentativo di conciliazione: con quest’ultimo il lavoratore già licenziato vedeva congelato per 60 giorni il suo diritto di agire in giudizio per ottenere la reintegrazione, mentre la procedura in commento non avviene in stato di disoccupazione, essendo anzi finalizzata a prevenirlo e magari evitarlo.

Anche nella sua versione iniziale, peraltro, questa «procedura di raffreddamento» aveva il limite del coinvolgimento solo virtuale delle rappresentanze sindacali eventualmente presenti in azienda e/o delle organizzazioni sindacali territoriali. Per rendere effettiva la possibilità di assistenza al lavoratore (come lo sarà certamente per il datore di lavoro, che prima di prendere l’iniziativa si sarà consultato con la propria associazione e/o con avvocati o consulenti del lavoro) sarebbe stato necessario rendere obbligatoria la comunicazione iniziale per conoscenza alle RSU/RSA o, in loro assenza, alle organizzazioni sindacali territoriali più rappresentative. Si ritiene comunque che i membri delle organizzazioni sindacali facenti parte delle singole Commissioni provinciali di conciliazione, debbano – quantomeno – essere preventivamente informati delle pratiche che verranno trattate quel determinato giorno, consentendo così alle organizzazioni sindacali stesse di informare per tempo il lavoratore della possibilità e dell’opportunità di farsi assistere dalla RSA e/o da un legale di fiducia del sindacato. Tale prassi è stata adottata da alcune DTL (ad esempio quella di Bologna)

D’altra parte è innegabile che nessuno meglio delle rappresentanze sindacali presenti nel luogo di lavoro può essere in grado di valutare il contesto aziendale. Ne consegue una grande responsabilità in capo ai sindacalisti che assisteranno i lavoratori in quella sede; questi dovranno dimostrare capacità critiche tali da eventualmente contestare i dati forniti dalla società e, soprattutto, proporre l’utilizzo di ammortizzatori sociali conservativi (cassa integrazione, contratti di solidarietà) e comunque quelle soluzioni alternative al recesso che la giurisprudenza già impone vadano prese in considerazione, come ad esempio, in caso di denunciata necessità di soppressione di un posto di lavoro, di riutilizzo del lavoratore in altre mansioni. È un peccato che sia rimasta inascoltata la proposta di un autore (Alleva P., 2012) di imporre per legge un vero e proprio obbligo di preventivo ricorso agli ammortizzatori conservativi prima di procedere al licenziamento: un simile «limite esterno» al potere di recesso avrebbe anche potuto favorire, nel tempo di esaurimento dell’ammortizzatore conservativo, il reperimento di altra occupazione.

Conclusivamente, la Commissione di conciliazione ha nuovamente acquisito un ruolo importante,  perduto a seguito dell’eliminazione dell’obbligatorietà del tentativo di conciliazione da parte della l. n. 183/2010: essa, se il datore comparirà, dovrà formulare una proposta conciliativa e verbalizzarla, mentre del comportamento tenuto dalle parti, risultante a verbale, terrà conto il giudice (e quindi anche, in teoria, di quello del datore che immotivatamente rifiuti soluzioni praticabili che salvaguardino l’occupazione). I funzionari sindacali che assisteranno i dipendenti avranno quindi anche la responsabilità di annotare e memorizzare il contenuto del confronto che si svilupperà in quella sede, per poi darne conto in giudizio (o magari, ancor prima, coadiuvando la redazione del ricorso).

Purtroppo, a seguito delle pressioni di ambienti datoriali, preoccupati per… lo stato di salute dei dipendenti licenziandi (è diffusa la prassi di licenziare in tronco – con la «offerta» dell’indennità sostitutiva del preavviso – anche persone che non hanno commesso alcuna colpa, per evitare che «si mettano in malattia») rispetto ad una prima versione del disegno di legge è stato approvato dal Senato, e confermato alla Camera, un odioso emendamento che presuppone una sorta di «presunzione di frode» in capo a tutta la categoria dei dipendenti. In forza di esso il licenziamento intimato all’esito di tale procedimento produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato (art. 1, comma 41): detto emendamento rischia di svuotare di contenuto la disposizione stessa, non rendendo vantaggioso per il datore partecipare ad una trattativa – salvo quanto di dirà tra poco in merito ad una modifica introdotta dal DL  n. 76/2013 convertito con  legge  n. 99/2013 –  nella consapevolezza che, decorso il termine della stessa, il licenziamento avrà comunque decorrenza dal momento in cui ha manifestato l’intenzione di licenziare, senza alcun onere aggiuntivo.

È evidente che, ove il CCNL preveda che i termini di preavviso decorrano dal primo o dal sedicesimo giorno di ciascun mese[3], se l’inizio della procedura non ha coinciso con tali termini non si potrà retroagire oltre essi.

Viene fatta salva l’ipotesi di «infortunio occorso sul lavoro» nel frattempo intervenuto: in tale ultimo caso gli effetti del licenziamento rimangono sospesi. Analogo «effetto sospensivo» si avrà qualora nel corso della procedura intervenga il divieto di licenziamento previsto dal Testo Unico per la tutela della maternità e paternità di cui al d.lgs. n. 151/2001, vale a dire dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Sembra invece logico che, ove lo stato oggettivo di gravidanza preceda la comunicazione, il licenziamento non potrà essere neppure irrogato, in quanto sarebbe nullo.

È garantito il diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva che, per quanto previsto come «eventuale» dall’art. 1, comma 41, è invece sempre dovuto in caso di giustificato motivo oggettivo (art. 3 della l. n. 604/1966). Il periodo di lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.

All’uscita della legge Fornero si era criticato il fatto che l’obbligo del datore di lavoro di attivare la procedura non  fosse adeguatamente sanzionato, al pari della mancata comparizione avanti alla DTL del datore che abbia promosso la procedura stessa. Per la prima ipotesi, la legge in esame prevede (cfr. art. 18,  comma 6, Stat. lav.) una sanzione economica dimezzata rispetto all’ipotesi di accertata ingiustificatezza del licenziamento (peraltro evitabile con la revoca del licenziamento, possibile entro quindici giorni dall’impugnazione del medesimo) sanzione che appare del tutto incoerente con la finalità dell’introduzione di una previa procedura conciliativa volta a vincolare il datore a un confronto sulla fondatezza del licenziamento economico e sulle possibili soluzioni alternative Per l’ipotesi della mancata comparizione del datore di lavoro è, invece, intervenuto il legislatore del 2013.

3. – Le ulteriori modifiche dell’art. 7  della l. n. 604 del 1966 da parte della legge n. 99/2013 (di conversione del d.l. n. 76/2013) –

 Il d.l. n. 76/2013, convertito nella l. n. 99/2013,  ha aggiunto all’art. 7, comma 6, della l .n. 604/1966 le seguenti parole: «La mancata presentazione di una o entrambe  le  parti  al tentativo  di  conciliazione  e’  valutata  dal  giudice   ai   sensi dell’articolo 116 del codice di procedura civile», il cui secondo comma consente al giudice di desumere argomenti di prova anche «dal contegno delle parti stesse nel processo».Il giudice dovrà, dunque, oggi tenere conto, nella successiva causa di impugnazione del licenziamento, della mancata presentazione delle parti in sede di conciliazione, non solo per quanto concerne la liquidazione delle spese, e per la determinazione dell’indennità risarcitoria (cfr. art. 18, nuovo comma 7, Stat. lav.), ma anche per «la valutazione delle prove».    Dunque il contegno tenuto dal datore di lavoro nella fase pre-giudiziale è espressamente equiparato  dalla legge al contegno processuale, e ciò desta qualche perplessità, perché logicamente dovrebbe comportare che la mancata ingiustificata presenza dal datore nella procedura  (da esso stesso promossa)  sia concettualmente assimilabile alla sua contumacia. Ma ciò mal si concilierebbe con un procedimento – qual è, attualmente, quello disciplinato dal cd. “rito Fornero” – che non prevede decadenze processuali nella sua prima fase.     Tra le modifiche introdotte al  comma 6 dell’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604  e successive modificazioni  dalla legge 9 agosto 2013 , n. 99 c’è anche quella che esclude l’applicazione della procedura in  caso  di licenziamento  per  superamento  del  periodo  di  comporto  di  cui all’articolo 2110 del codice civile. Sul punto si era registrato un contrastante orientamento della giurisprudenza[4], rispetto al quale aveva preso posizione anche il Ministero con la sua circolare del 16 gennaio 2013 n. 3 contenente i primi chiarimenti operativi,  che aveva anticipato la legge dell’agosto 2013.     La novella del 2013  elimina ogni incertezza su questa specifica tematica, ma non rispetto all’applicabilità della procedura al licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta, ipotesi parificata alla stessa nella prima parte del comma 7 dell’art. 18. Sul punto era sorto un analogo contrasto giurisprudenziale,  e la mancata esplicita esclusione da parte della novella può indurre a ritenere che il Legislatore abbia inteso valorizzare la possibile valutazione dell’occupabilità residua del lavoratore inabile o malato proprio all’interno della procedura (Biasi 2013).  Si concorda con questa opinione, essendo la procedura espressamente finalizzata alla ricerca di soluzioni alternative al recesso ed in particolare alla valutazione congiunta dei fatti giustificativi del licenziamento che il datore dovrà indicare con precisione, è alla possibilità di repechage la cui prova, in giudizio, incombe sul datore.

La procedura non trova inoltre applicazione per:

( a) i licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle 12 organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;

(b) la interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili (all’art. 2, comma 34, della L. n. 92/2012) per completamento delle diverse fasi lavorative e chiusura del cantiere.

Invero la prima delle due esclusioni trova una ragion d’essere – ovviamente nelle ipotesi di cambio d’appalto lecito – nel voler evitare che il “passaggio” dei dipendenti da un datore di lavoro ad un altro sia ritardato dallo svolgimento di una procedura finalizzata a tutelare il dipendente dalla perdita del posto di lavoro. In primo luogo, infatti, se si considera che la maggior parte delle ipotesi di legittimo cambio d’appalto è legata alla perdita della commessa da parte dell’appaltatore, non avrebbe alcun senso l’esperimento di una procedura rivolta alla conservazione di un posto di lavoro che non esiste più in capo al datore di lavoro – appaltatore uscente. In secondo luogo, assume rilievo la circostanza che il posto di lavoro dei lavoratori coinvolti nel cambio d’appalto sarebbe comunque “garantito” dalla riassunzione presso l’appaltatore subentrante, laddove l’esperimento della procedura di conciliazione potrebbe invece determinare la perdita o il ritardo di tale opportunità.

Naturalmente la norma non prevede alcuna differenziazione tra le ipotesi lecite e le ipotesi illecite: alla luce del disposto normativo di cui all’art. 29 c 3-bis del d.lgs. n. 276/2003 e della più volte manifestata ritrosia dellagiurisprudenza ad ammettere la configurabilità di un trasferimento d’azienda in ipotesi di cambi d’appalto di servizi c.d. “leggeri”[5], potrebbe dunque determinarsi un’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori coinvolti in un cambio d’appalto che nasconde nei fatti un trasferimento d’azienda e lavoratori coinvolti in un trasferimento d’azienda vero e proprio. A fronte di tale orientamento, infatti, il licenziamento per GMO irrogato dall’appaltatore uscente in un cambio d’appalto illegittimo rimarrebbe comunque sottratto all’obbligo di preventivo esperimento della procedura, e il lavoratore potrebbe agire in giudizio solo per fare accertare la sussistenza nei fatti di un trasferimento d’azienda: il lavoratore avrebbe tuttavia poche possibilità di ottenere una sentenza favorevole a riconoscergli il diritto a essere reintegrato presso l’appaltatore subentrante, né potrebbe far valere i vizi connessi al mancato esperimento della procedura, con conseguente impossibilità di beneficiare quantomeno dell’indennità risarcitoria oggi prevista dal comma 6 dell’art. 18 St. lav.

L’esclusione del procedimento per i licenziamenti per fine lavori in edilizia non trova, invece, a nostro avviso una ragionevole giustificazione.  Com’ è noto, infatti, l`ultimazione dei lavori edili per la realizzazione dei quali il lavoratore e` stato assunto integra gli estremi di un giustificato motivo di licenziamento, ma al fine di ritenere giustificato il recesso stesso è necessario che il datore di lavoro dimostri l`impossibilità di utilizzazione del lavoratore medesimo in altre mansioni compatibili, con considerazione di tutti i cantieri nei quali è dislocata l`attività di impresa[6])`.

Il principio, assolutamente pacifico, impone, in occasione della chiusura di un cantiere, al datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze lavoratori con contratto a tempo indeterminato – che pertanto, in quanto tali, hanno probabilmente prestato la loro attività in più cantieri – l’obbligo di repechage in tutti i cantieri ancora aperti.

L’esclusione della procedura non appare quindi giustificata proprio in ragione della finalità della stessa,  che è quella di ricercare soluzioni alternative al recesso prima che esso venga posto in essere.

Viene poi previsto che se fallisce il tentativo di conciliazione e, comunque, decorre il termine di sette giorni per la trasmissione, da parte della DTL, della convocazione al datore di lavoro e al lavoratore, «il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore» mentre «la mancata presentazione di una o entrambe le parti al tentativo di conciliazione è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 116 del codice di procedura civile» fatto comunque salvo il «legittimo e documentato impedimento del lavoratore a presenziare all’incontro»di cui all’ultimo comma dell’art. 7 della L. n. 604/1966.

  1. Termini per l’impugnazione giudiziale.

Il termine per fare causa è di 180 giorni (anticipato, dalla Legge Fornero, rispetto ai 270 previsti dal vecchio art. 6, comma 2, l. n. 604) che decorrono, secondo un’interpretazione letterale, dalla lettera raccomandata con cui il licenziamento è stato impugnato in via stragiudiziale, mentre secondo alcune decisioni, dal 60° giorno dal licenziamento (termine ultimo per l’impugnazione extra-giudiziale). Tale disposizione è probabilmente collegata al nuovo procedimento di tutela urgente di cui commi 47 e ss. dell’art. 1, trovando il termine breve una ragion d’essere solo per un procedimento sommario ed urgente.

In ogni caso la disposizione non ha una sua logica per le ipotesi in cui non è prevista la reintegrazione, sia nella «vecchia» tutela obbligatoria (sotto i 16 dipendenti) sia nella nuova in cui non è prevedibile si possa ottenere la reintegrazione: un termine eccessivamente «stretto», infatti, comprime inutilmente i tempi di trattativa per una composizione extragiudiziale della controversia, costringendo i lavoratori a promuovere dei giudizi che magari potrebbero essere evitati, e ciò proprio mentre si afferma, paradossalmente, di voler limitare l’inutile ricorso alla giustizia.

[1]        Aggiornamento a Maggio  2014, con il contributo di Mara Congeduti, del precedente testo pubblicato nel volume Rapporti di lavoro e ammortizzatori sociali, AA.VV. Ediesse 2012

[2]        L’art. 2 prima della riforma Fornero non prevedeva l’obbligo di motivazione contestuale alla comunicazione del licenziamento, ma solo che tale comunicazione fosse effettuata in forma scritta. Se quindi il dipendente licenziato non chiedeva che venissero precisati i motivi del recesso entro 15 giorni dalla sua comunicazione, il datore avrebbe potuto fornirli con la costituzione in giudizio, ove il dipendente avesse deciso di fare causa. Al contrario, se la richiesta dei motivi veniva avanzata (non solo in totale assenza di motivazione, ma anche  a fronte di una motivazione troppo generica) ed essi non erano esaurientemente forniti entro 7 giorni dalla richiesta, il licenziamento risultava inefficace, con le medesime conseguenze applicabili al licenziamento ingiustificato:  tutela reale (reintegrazione) o tutela obbligatoria (semplice indennizzo) a seconda delle dimensioni occupazionali (datore di lavoro con più o meno di 15 dipendenti nell’ambito del comune o di 60 complessivamente)

[3]     v., ad es. il CCNL Terziario e distribuzione dei servizi

[4]     Avevano considerato applicabile la procedura Trib. Milano 22 marzo 2013 (est. Atanasio), confermata da sentenza dello stesso Trib. Milano 1 luglio 2013; Trib. Perugia 7 marzo 2013 (est. Claudiani); contra Trib. Milano 5 marzo 2013 (est.Casella)

[5] Ma, in senso contrario, v da ultimo Trib. Busto Arsizio 4 febbraio 2013

[6]Cass. 12  settembre 2013, n. 22414; Cass. 22 ottobre 2009, n. 12417;  Cass. 2 settembre 2005, n. 17676

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