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Corte d'Appello di Bologna > Processo
Data: 03/05/2005
Giudice: Benassi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 57/05
Parti: Giovanni N. / Progesa S.r.l.
PRESUPPOSTI PER LA NULLITA’ DELL’ATTO DI APPELLO: MANCATA ENUNCIAZIONE DI SPECIFICI MOTIVI


Un lavoratore che aveva ricevuto una contestazione disciplinare per essersi introdotto nottetempo in azienda, senza autorizzazione, lamentava di essere stato costretto – sotto l’alternativa di subire un licenziamento e minaccia di trasformazione di un esposto nel frattempo presentato ai Carabinieri in denuncia – a firmare una lettera di dimissioni già predisposta. Ritenendo l’atto nullo si presentava successivamente in azienda con testimoni per offrire la sua prestazione lavorativa, ma veniva respinto; impugnava quindi il licenziamento avanti al Tribunale del lavoro di Bologna, che respingeva il ricorso per non aver il lavoratore dedotto specifici capitoli di prova volti ad accertare la nullità o annullabilità delle dimissioni. Essendo anzi risultata provata la fondatezza delle contestazioni disciplinari, per il giudice di primo grado non poteva costituire violenza morale la minaccia di far valere il diritto di licenziamento. Tale tesi è stata sostanzialmente accolta dalla Corte d’Appello, che ha parimenti respinto il ricorso proposto dal lavoratore. Preliminarmente la Corte esamina l’eccezione di nullità dell’appello sollevata dalla società per asserita genericità, riepilogando le caratteristiche del giudizio d’appello, che non è un iudicium novum, ma una revisio prioris instantiae, e pertanto la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi: ciò esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime (Cass. n. 7524/97), con sufficiente grado di specificità da correlare con le motivazioni della sentenza censurata (Cass. S.U. n. 16/2000; Cass. n. 3805/98; Cass. n. 8297/97; Cass. n. 6893/97; Cass. n. 1599/97; Cass. n. 6066/95). La sanzione processuale, derivante dalla inosservanza di questi principi, è stata recentemente individuata (Cass. S.U. n. 16/2000) in una nullità che determina l’inammissibilità del gravame, con conseguente effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, senza alcuna possibilità di sanatoria dell’atto a seguito della costituzione dell’appellato e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla specificazione dei motivi avvenuti in corso di causa. La costituzione dell’appellato, infatti, consente il raggiungimento di solo uno dei due scopi dell’atto d’appello (costituzione del rapporto giuridico processuale) ma è inidonea a raggiungere l’altro (impedimento del passaggio in giudicato della sentenza impugnata), che è conseguibile solo con il comportamento dell’appellante conforme alle previsioni dell’art. 342 cod. proc. civ. (ovvero dell’art. 434 cod. proc. civ., nel rito del lavoro). Diviene quindi inammissibile un appello viziato per il momento in cui è compiuto (impugnazione oltre i termini di legge) o perché contrario ad atti o comportamenti precedenti o contemporanei alla proposizione dell’atto (acquiescenza parziale o totale: art. 329 cod. proc. civ.) o per la sua difformità rispetto al modello che lo prevede (violazione dell’art. 342 cod. proc. civ.): esso, infatti, non consente al giudice di accedere all’esame, nel merito, della revisio prioris instantiae richiesta. Nel caso concreto, peraltro, la Corte non ha ritenuto l’appello inammissibile