Ricerca Avanzata
   Tribunale di Bologna
   Tribunali Emilia-Romagna
   Corte d'Appello di Bologna
   Lo Studio nelle Alte Corti
 
Tribunali Emilia-Romagna > Mobbing
Data: 08/03/2006
Giudice: Sorgi
Tipo Provvedimento: Sentenza
Numero Provvedimento: 86/06
Parti: Ileana R. /TECOMEC S.p.A. – PRECISION TOOLING S.p.A.
TRIBUNALE DI FORLì - MOLESTIE SESSUALI E MOBBING – SUSSISTENZA DELLE PRIME ED INSUSSISTENZA DEL SECONDO - DIRITTO COMUNQUE AL RISARCIMENTO DEI DANNI PATRIMINIALI, BIOLOGICI ED ESISTENZIALI


Da una delicata vicenda di molestie sessuali il Tribunale di Forlì coglie occasione per una approfondita analisi della materia, attraverso una sua comparazione con il diverso fenomeno del mobbing. La vicenda trae origine dal ricorso di una lavoratrice che dichiarava di aver lavorato presso un locale per quasi due anni, quando, dopo una malattia prolungatasi per alcuni mesi (seguita ad uno scontro acceso con il suo “persecutore” che aveva comportato la richiesta di intervento delle forze dell’ordine), aveva comunicato il recesso la rapporto di lavoro “constatata l’impossibilità di riprenderlo serenamente”. Si lamentava in particolare la dipendente del comportamento di uno dei soci che gestiva il locale, B.M., che in tutti i modi la insidiava per ottenerne i favori, ricevendo sempre dei rifiuti. Una volta venuto a conoscenza che la lavoratrice aveva un legame di convivenza con altro uomo, il socio aveva poi assunto atteggiamenti estremamente provocatori, offensivi e denigratori nei confronti della stessa.

All’esito della lunga istruttoria, durante la quale venivano sentiti ventiquattro testimoni, il Giudice riteneva, pur nella non univocità delle deposizioni, di propendere per la maggiore credibilità della versione fornita dalla C. risultando, tra l’altro, confermati: la proposta di una crociera dal B. alla C. e rifiutata dalla stessa; uno schiaffo dato in risposta ad una toccata di glutei; un’ingente somma regalata per il compleanno dal B. e rifiutata con tatto dalla C. Rilevanti sono state considerate anche infine le testimonianze di quattro donne che hanno concordemente dichiarato di aver abbandonato il lavoro per via dei comportamenti del B. e del clima da questo creato nell’ambiente di lavoro.

Per la definizione di molestia sessuale il giudice, partendo dal presupposto che manchi un riferimento normativo certo (invero l’art. 2 comma 3 del D.lgsl. n 212 del 2003, seppur relativamente all’”orientamento sessuale” più che al sesso in quanto tale, considera discriminazioni “anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati (…) aventi lo scopo e l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”: n.d.r.) richiama la definizione data dal Consiglio d’Europa: “ogni comportamento a connotazione sessuale, o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso, compreso quello dei superiori e dei colleghi, che offende la dignità degli uomini e delle donne”, inaccettabile se: a) il comportamento è indesiderato, irragionevole ed offensivo; b) se è finalizzato a condizionare l’accesso al lavoro, la promozione, il mantenimento nel posto di lavoro, la retribuzione, ecc.; c) crea un ambiente di lavoro intimidatorio, ostile o umiliante per chi lo subisce.

Il giudice, osservando come l’ultima parte della definizione introduca il concetto di molestia ambientale che appare limitrofo a quello di mobbing, distingue la due figure: “Secondo la psicologia del lavoro, dalla quale il giurista trae il concetto stesso di mobbing, due sono le differenze fondamentali. La molestia sessuale può essere costituita anche da un solo atto, il mobbing deve essere sistematico. Il molestatore ha, nei confronti della vittima, un chiaro intento libidinoso, il mobber può tendere a dare fastidio, punire, denigrare, espellere. In sostanza la molestia sessuale è una manovra di avvicinamento, il mobbing è una strategia di allontanamento”

Esaminando il caso concreto, il Tribunale di Forlì ravvisa nell’atteggiamento del datore di lavoro nei confronti della dipendente due fasi ben distinte separate dalla notizia del fidanzamento di quest’ultima, vissuto dal primo quasi come un tradimento o comunque come perdita di speranze di intrattenere una relazione con la stessa: due fasi nelle quali il dato sessuale risulta componente fondamentale e predominante. In considerazione di ciò il giudice ritiene “che nel caso di specie si sia realizzata un’ipotesi di molestia sessuale prolungata nel tempo senza che la stessa sia stata riconvertita in mobbing. (…) Nel caso in esame il mobbing non apporterebbe alcun vantaggio pratico e, al contrario, proprio per la particolare complessità della figura - che richiede una serie di condizioni per la verifica positiva della realizzazione - rischierebbe di indebolire la posizione della ricorrente che ha indubitabilmente subito una serie di molestie sessuali che costituiscono già il loro presupposto per rendere legittimo e dovuto il contenuto risarcitorio avanzato in questa sede”. Diritto al risarcimento che viene ravvisato innanzi tutto sotto il profilo del “mancato rispetto dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di svolgere i suoi compiti di salvaguardia del proprio dipendente in modo da tutelarne l’integrità fisica ed anche la personalità morale. Pacifico che i soci della società sapessero della condotta posta in essere da uno di loro, tra l’altro fratello degli altri due (…) e questo comporta la possibilità di rinvenire nei confronti della società convenuta profili di responsabilità contrattuale, derivante dal rapporto di lavoro tra le parti, che di responsabilità extracontrattuale, ex art. 2043, dove il danno è costituito dalle molestie subite dalla C. e la colpa è determinata dal mancato rispetto delle regole poste a tutela del rapporto di lavoro”.

Dopo aver preso in considerazione i danni di natura biologica e quantificato sia l’inabilità temporanea sia i danni permanenti nella misura del 5% (non aderendo alla lettura proposta dal CTU che ha ritenuto eccessiva in termini di conseguenze traumatiche dell’accaduto, che la fattispecie sia piuttosto riconducibile all’ipotesi del disturbo dell’adattamento piuttosto che a quello del disturbo post traumatico da stress) il giudice si sofferma sulle altre tipologie di danni: quelli esistenziali, che si sostanziano nelle umiliazioni subite in ambito lavorativo dalla ricorrente come conseguenza diretta delle molestie sessuali subite per un periodo di nove mesi. “Nessun dubbio – afferma – che, dopo le sentenze del 2003 della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, accanto al danno morale soggettivo e al danno biologico l’art. 2059 c.c. preveda la possibilità di ulteriori danni a condizione che vi sia una previsione normativa di tutela e sotto questo profilo la dignità e il rispetto del lavoro, principi fondamentali della nostra Costituzione, sono dati pacificamente riconducibili alla lettura estensiva del danno non patrimoniale come formulato dall’ultima giurisprudenza richiamata”. Dal punto di vista della prova del danno, la sentenza aderisce all’orientamento della Corte di Cassazione secondo la quale, una volta che viene a realizzarsi una lesione sotto il profilo della dignità del lavoratore questo determina inevitabilmente la realizzazione di un conseguente danno (Cass. n. 10157/2004).

Conseguentemente il Giudice provvede a valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. senza prendere in considerazione parametri reddituali “in quanto valori come la dignità e il rispetto della persona non si adattano ad essere valutati diversamente in ragione del reddito e della ricchezza posseduti”.