Il 16 dicembre 2016 si è tenuto a Verona un convegno sulle discriminazioni nel diritto del lavoro, organizzato dall’Associazione veronese avvocati giuslavoristi (Avag). Pubblichiamo gli interventi di Donata Gottardi, docente di diritto del lavoro nell’Università di Verona; Tatiana Biagioni, avvocata giuslavorista, da anni impegnata nelle politiche di genere, già consigliera di parità della Provincia di Milano; Alberto Piccinini, avvocato giuslavorista a Bologna.

CONVEGNO

VERONA 16 DICEMBRE 2016

DISCRIMINAZIONI NEL DIRITTO DEL LAVORO: ALCUNE RIFLESSIONI

L’introduzione del Jobs Act, che prevede il reintegro solo per i licenziamenti discriminatori, sta riportando al centro il tema delle discriminazioni, che oggi riguardano anche l’età e perfino il peso; le discriminazioni contro le lavoratrici donne e l’insopportabile esito delle denunce per molestia, dove è sempre la molestata a lasciare il posto e il molestatore a rimanere; la vicenda dei dipendenti Fiat licenziati perché “credevano” nella Fiom. Interventi di Donata Gottardi, Tatiana Biagioni, Alberto Piccinini.

Donata Gottardi

Vorrei introdurre questi lavori con una sorta di ricognizione, di abc sul tema delle discriminazioni. La prima considerazione che vi sottopongo è che oggi, a seconda delle fonti che andiamo a consultare, disponiamo di elenchi diversi (più o meno esaustivi) di fattori di discriminazione vietati. Se andiamo a vedere la Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000, che è una sorta di costituzione europea, troviamo un elenco tutto sommato lungo; nella nostra Carta costituzionale l’elenco dei fattori vietati è già molto più limitato. E così se guardiamo ai vari trattati, disposizioni…

Dal punto di vista legislativo nazionale, a me pare che l’elenco più completo ed esaustivo sia ancora quello inserito nell’art. 10 del dl 276 del 2003, noto come Legge Biagi, laddove vieta le discriminazioni nell’accesso al lavoro; lì a mio avviso trovate la disciplina più ampia ed esaustiva di fattori di discriminazione. Addirittura questo elenco lunghissimo si chiude con il divieto di discriminare in base a controversie instaurate contro precedenti datori di lavoro. Cioè il fatto che un lavoratore abbia iniziato una controversia con i precedenti datori di lavoro non può essere considerato come fattore per escludere l’assunzione della persona.

Abbiamo poi una disciplina normativa di dettaglio nei confronti di alcuni fattori di discriminazione vietati nel nostro ordinamento; il più noto, quello che ha radici più lontane, è il divieto di discriminare tra lavoratori e lavoratrici, quindi il divieto di discriminazione di genere.

Accanto a questo, su cui ci sono sia direttive europee che direttive nazionali, troviamo quelle che in passato erano note come “direttive di nuova generazione”, e quindi divieti di discriminare per razza, origine etnica, età, disabilità, religione o orientamento sessuale.

Faccio presente che oggi assistiamo all’emergere di alcuni nuovi potenziali fattori di discriminazione. Penso ad esempio al fattore obesità, che non incontriamo in nessuno di questi elenchi e nemmeno nei fattori direttamente vietati.

Di tutti questi temi si discute da tantissimo tempo e tuttavia occuparsi di discriminazione ha sempre voluto dire occuparsi di un argomento di nicchia, di temi non fondamentali per l’ordinamento, certo interessanti ma non decisivi.

Tutto questo è cambiato, a mio avviso, soprattutto a partire dal 2012 con la normativa sulla “tutela reale”. Visto che la tutela reale, cioè il reintegro, oggi è riservato esclusivamente ai licenziamenti discriminatori, questi ultimi stanno tornando al centro dell’attenzione assumendo il rilievo che hanno negli altri paesi, dove i divieti di discriminazione sono il faro, il punto di riferimento della normativa. È emblematico come, anche dal punto di vista quantitativo, in occasioni di confronto con il mondo anglosassone o con il Nord Europa, questi paesi contassero migliaia e migliaia di controversie, mentre noi siamo sempre rimasti su numeri molto limitati.

Le discriminazioni si distinguono in dirette e indirette. Solo le discriminazioni indirette possono superare il vaglio di proporzionalità e di ragionevolezza. Il fatto è che larga parte delle discriminazioni sono multiple. Noi possiamo infatti discriminare simultaneamente per genere, per età e per condizioni.

Ricordiamoci poi che non ci sono solo le discriminazioni all’interno del rapporto di lavoro, ci sono anche le discriminazioni istituzionali.

Aggiungo che anche le molestie sono considerate discriminazioni. Quando parliamo di discriminazioni parliamo pertanto di un campo molto ampio.

Di nuovo, di che cosa parliamo quando parliamo di discriminazioni? Uno dei punti controversi, sul quale fortunatamente la Cassazione sembra aver avviato un cambiamento di orientamento, è il concetto di “intento discriminatorio”. Nelle sentenze del nostro paese si continua a fare riferimento all’intento discriminatorio. Ecco questa è una nozione tutta nazionale, che si scontra completamente con l’orientamento dell’Unione Europea, dove l’intento non entra nella nozione di discriminazione. La nozione di discriminazione è oggettiva, e non soggettiva. Non si deve andare a vedere quale è stato l’intento. Che ci fosse o meno un intento discriminatorio è del tutto irrilevante.

Su questo c’è stata un’interessante e significativa decisione della Cassazione del 5 aprile 2016, in un caso anche abbastanza complicato di assenza annunciata in uno studio legale per una procreazione medicalmente assistita. Ecco lì la Cassazione ha ritenuto che non si dovesse andare a indagare se il datore di lavoro aveva l’intento di discriminare.

Come si può immaginare, tra le discriminazioni di genere, le più ricorrenti riguardano maternità, congedi parentali e in generale utilizzo dei congedi. Nel nostro paese, e anche a livello di Corte di giustizia, è il genere, la differenza di trattamento tra lavoratore e lavoratrice, quello che storicamente ha costituito il punto di riferimento della giurisprudenza. Ebbene, nelle decisioni più recenti, la parte del leone non la fa più il genere, bensì l’età. Molte controversie sono infatti legate ai regimi pensionistici.

In alcuni dei casi trattati dalla Corte di giustizia sulla pensione di reversibilità entrano in gioco l’età più l’orientamento sessuale. Quindi come vedete i fili continuano a congiungersi tra controversie nazionali e controversie portate all’attenzione della Corte di giustizia europea.

La sentenza del 24 novembre 2016 scioglie un incastro normativo interessantissimo. Il 31 dicembre 2010 il signor Parris era andato in pensione. Esattamente il giorno dopo, il 1° gennaio 2011, in Irlanda è entrata in vigore la legge sulle unioni civili. Il signor Parris era dunque andato in pensione prima del riconoscimento della sua unione civile da parte dello Stato irlandese. A quel punto lui non poteva trasmettere la pensione di reversibilità al compagno. E d’altra parte non lo poteva sposare prima… È un caso interessante, che tra l’altro ci potrebbe riguardare molto da vicino.

C’è stata anche una decisione della Corte costituzionale del giugno del 2016, in materia di pensioni di reversibilità e i cosiddetti “matrimoni tardivi”. Nella norma nota come “anti-badanti”, la Corte costituzionale ha ritenuto fossero stati violati gli art. 3, 36 e 38 della Costituzione, rilevando che è vero che c’è un profilo di contenimento della spesa, ma che così venivano violati principi costituzionali, in quanto era stato immaginato un meccanismo normativo (a proposito di discriminazioni istituzionali), che prevedeva una presunzione assoluta che è incompatibile con l’ordinamento.

Tatiana Biagioni

Cercherò di legare il racconto del lavoro svolto come consigliera di parità per il territorio della Provincia di Milano alla storia della giurisprudenza recente.

Come anticipato da Donata Gottardi, nel 2012 è cambiata la norma sulla tutela reale, per cui ci si aspetta un’ondata, un cambio di passo sul tema discriminatorio, che però ancora non c’è stato.

Per capire cosa possiamo fare, per me è importante chiederci innanzitutto se in questo paese esiste o meno un tema di discriminazione di genere. Io credo che esista un tema molto forte di discriminazione di genere in Italia, che va dalle discriminazioni legate alla maternità, alle molestie sessuali. Queste discriminazioni, spesso, non solo non vengono rilevate dagli addetti ai lavori, ma neanche dalle organizzazioni sindacali. In molti casi non viene fatta un’istruttoria tale da permettere di riconoscere una situazione discriminatoria. Tanto più che normalmente, salvo i casi di scuola, un caso di discriminazione viene coperto da una motivazione astrattamente legittima.

Noi abbiamo a disposizione uno strumento che quasi nessuno conosce: il rapporto sul personale. Esiste un articolo che prevede che ogni due anni le aziende con più di cento dipendenti facciano un rapporto sul personale con i dati disaggregati per genere. Tale documento viene poi consegnato alle organizzazioni sindacali e alla consigliera regionale di parità. Si tratta di uno strumento molto utile perché si può vedere quante sono le entrate divise tra uomini e donne, quanta formazione viene fatta, chi fa il part-time e chi il tempo pieno; si può studiare addirittura il tema della retribuzione. Uno strumento totalmente sconosciuto che invece sarebbe di grande utilità. Analizzando alcuni di questi rapporti sul personale si vede confermato come la struttura delle grandi aziende italiane sia tutta piramidale, con molte donne ai livelli inferiori dell’inquadramento, il cui numero però si restringe man mano che ci si alza a livelli superiori.

Questo per dire che il tema esiste, ma va affrontato in maniera organica e scientifica da parte di tutti gli addetti. Io temo che esista anche una resistenza culturale su questo tema, da parte di uomini e donne in egual maniera.

Le consigliere di parità possono essere nazionali, regionali, prima provinciali, ora di enti d’area vasta, o di città metropolitana. Cosa fanno? Promuovono le pari opportunità quindi organizzano convegni, incontri nei luogo di lavoro, ma soprattutto si occupano di controllare l’applicazione della normativa antidiscriminatoria.

Nel caso venga rilevata una discriminazione di genere, possono intervenire direttamente in giudizio nel luogo della persona discriminata oppure “ad adiuvandum”. In concreto, se c’è una discriminazione di genere, e la lavoratrice fa una causa assieme al suo avvocato, può chiedere l’intervento della consigliera di parità la quale interviene, rappresentando la collettività, affinché venga accertata questa discriminazione.

Io sono stata consigliera di parità dal 2002 al 2013. In questo intervallo di tempo sono intervenuta 78 volte davanti al tribunale di Milano e sette volte davanti alla Corte d’appello.

Di questi 78 casi, 65 riguardavano una discriminazione diretta per gravidanza o maternità. In particolare 31 erano casi di demansionamento al rientro dal periodo di congedo di maternità. Al ritorno dalla maternità del primo o ancora di più del secondo figlio le donne non ritrovano più il loro posto e spesso abbandonano il lavoro.

Una grande società di telecomunicazioni per due volte ha demansionato la lavoratrice al rientro dalla gravidanza; in un primo tempo la lavoratrice era riuscita a riconquistare la mansione precedente, ma a quel momento è arrivata la seconda gravidanza, e un definitivo demansionamento. La particolarità di questa sentenza è che il giudice ha prestato una particolare attenzione alla scansione temporale in cui si sono verificati i fatti, per cui prima un rapporto soddisfacente con buoni risultati, con progressioni di carriera, mentre dopo la prima maternità cambia tutto.

Nei 78 casi citati, le sentenze perse sono state perse tutte per motivi legati all’onere della prova, che pure nel caso discriminatorio è alleggerito; alleggerito significa che non è necessario fornire indizi “gravi, precisi e concordanti”, sono sufficienti indizi “precisi e concordanti”. Però è il lavoratore a dover presentare questi indizi.

Questo è forse il motivo per cui, nel corso degli anni, si è messo spesso il licenziamento discriminatorio in subordine, privilegiando l’assenza del giustificato motivo oggettivo o giusta causa, perché in questi casi l’onere della prova era tutta a carico del datore di lavoro.

Qui la lavoratrice era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo al rientro dalla gravidanza per soppressione del posto di lavoro. Vi erano tuttavia moltissimi indizi che lasciavano pensare che il licenziamento fosse legato alla maternità. Dal mio punto di vista, c’era addirittura una prova chiara perché l’amministratore delegato aveva mandato alla lavoratrice una mail in cui accennava al disagio, alle difficoltà per la cura di un piccolo, che avrebbero limitato la presenza della lavoratrice sul luogo di lavoro. Comunque la controparte non è riuscita a provare che il licenziamento era veramente legato alla soppressione del posto di lavoro quindi la lavoratrice è stata reintegrata.

Apro una parentesi: nel 2016 su 3028 dimissioni nei primi tre anni di vita del bambino, solo tredici riguardavano degli uomini. È evidente quanto siamo indietro sul tema della condivisione dei carichi famigliari.

Dei 65 casi di discriminazione diretta, 34 riguardavano mancate assunzioni, anche a seguito di cambio d’appalto, licenziamenti, molestie sessuali, mancata progressione di carriera e diniego alla richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno.

Un’altra sentenza significativa è quella della corte d’appello relativa alla mancata assunzione di una lavoratrice in gravidanza. La lavoratrice era già stata assunta verbalmente: le avevano presentato i colleghi, mostrato la scrivania e il computer. Le avevano poi fatto delle visite preassuntive, peraltro non necessarie rispetto all’attività da svolgere; tra queste vi era pure l’analisi delle urine. Ma il fatto clamoroso è che il medico aziendale, tra le varie domande, le ha fatto anche quella che ci ha fatto vincere in corte d’appello e cioè la data delle ultime mestruazioni.

Alla fine la lavoratrice, inspiegabilmente, non era stata assunta. Questa cosa l’aveva molto insospettita. A quel punto aveva fatto un test di gravidanza e si era resa conto di essere incinta. Il giudice di primo grado non ha rilevato un comportamento discriminatorio. La corte d’appello invece ha sentenziato che se un’azienda pretende un’analisi non richiesta rispetto all’attività svolta, in più la ripete due volte e chiede pure la data delle ultime mestruazioni, beh, questo è un motivo sufficiente per dimostrare la sussistenza di una mancata assunzione e di un comportamento discriminatorio per motivi di genere, in questo caso legato alla gravidanza.

Un’altra sentenza molto interessante riguarda un gruppo di donne assunte part time, che però facevano moltissime ore di straordinario, addirittura oltre l’orario del full-time. Queste avevano chiesto di essere assunte full time. La richiesta non era stata accolta. Nello stesso periodo erano stati assunti degli uomini. Il giudice in questo caso ha utilizzato il dato statistico così come prevede l’art.40 sull’onere della prova. Ha così verificato che nel punto vendita c’erano 51 dipendenti, 37 donne e 14 uomini; ebbene, tutti gli uomini erano stati assunti a tempo pieno, e tutte le donne a tempo parziale. È stato inoltre rilevato che i posti di responsabilità erano coperti al 98% da lavoratori maschi. A quel punto ha ordinato la conversione del rapporto da part-time a full-time.

All’ufficio della consigliera di parità arrivano decine e decine di denunce sul tema delle molestie, però praticamente quasi nessuna causa arriva in giudizio.

Quello della molestia è un tema molto delicato in questo paese: l’asticella è estremamente alta; inoltre le donne fanno molto fatica a denunciare perché tutte le volte che lo fanno perdono il posto di lavoro. Arriva un risarcimento del danno, però è sempre la molestata che lascia il posto e il molestatore che rimane. Questa la mia esperienza di questi undici anni. Ora, chi molesta fa di tutto fuorché lavorare, chi viene molestato fa di tutto fuorché lavorare e tutti quelli che stanno intorno subiscono una situazione certo non ottimale per lavorare. Nonostante questo, e nonostante il fatto che i molestatori siano seriali (per cui uno si tiene in azienda un soggetto che riprodurrà questo comportamento), resta un tema molto difficile da trattare. L’ultima rilevazione Istat, pubblicata nel 2010, parlava di più di un milione di donne molestate in Italia sul luogo di lavoro con un numero di interventi in giudizio veramente residuali.

Alberto Piccinini

È già stato ricordato come, specie a partire dal 2012, il tema del licenziamento discriminatorio stia assumendo rilevanza.

Quando la sanzione della reintegrazione era il risultato di un licenziamento comunque ingiustificato o anche viziato nella forma, se pure fosse stato anche discriminatorio, era più facile per noi avvocati e ancor più per il giudice arrivare allo stesso risultato. Quindi non c’era neanche la spinta a cercare di indagare e approfondire il tema della discriminazione, che oggi invece tutti riconoscono essere al centro del dibattito.

È importante secondo me partire dalla definizione di licenziamento discriminatorio, che attualmente è regolamentato da due norme, l’art.18 primo comma, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, e l’art. 2 sempre primo comma, del dl 23 del 2015, il famoso “Jobs act”, che rispetto al licenziamento discriminatorio ha comunque conservato la sanzione della reintegrazione.

La definizione però non la troviamo in nessuna di queste norme, perché entrambe fanno riferimento ad altre disposizioni di legge. L’art. 18 sceglie un meccanismo di scatole cinesi per cui fa un riferimento all’art. 3 della legge 108 del ’90, che a sua volta richiama l’art. 4 della legge 604 del ’66, e l’art 15 dello Statuto dei lavoratori. Ora, l’art. 4 della legge del ’66 dice che il licenziamento discriminatorio è quello determinato da ragioni di tipo politico o di fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato, dalla partecipazione all’attività sindacale. All’epoca eravamo concentrati sull’aspetto delle discriminazioni per motivi sindacali o per motivi politici. Anche la prima stesura dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori diceva essere nullo qualunque patto o atto diretto a licenziare o discriminare un lavoratore a causa dell’affiliazione a un’attività sindacale o della partecipazione a uno sciopero; l’ultimo comma estendeva la sanzione della nullità a patti o atti diretti ai fini di discriminazione politica e religiosa. Punto.

Già nel ’77 però c’è stata un’aggiunta a questo articolo, aggiungendo le parole “razziali, di lingua o di sesso”. Ma è dal 2003, dopo le direttive comunitarie di seconda generazione di cui ci parlava la professoressa Gottardi, che sono state aggiunte le parole “di handicap, di età, o basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”, allargando così la gamma di comportamenti discriminatori.

È una gamma da ritenere tassativa? Esaustiva? Verrebbe da rispondere di no. Veniva fatto l’esempio dell’obesità che non rientra in nessuna di queste categorie, e che la sensibilità del momento storico può indurci ad aggiungere alla famosa lista.

Il problema è che nel momento in cui si dovesse considerare questo elenco meramente esemplificativo, per cui ognuno ci può aggiungere quello che vuole, la portata di queste fattispecie particolarmente tutelate e protette perderebbe di pregnanza e di forza.

Mi voglio soffermare sulla discriminazione per età.

Confermo quello che ha detto la professoressa Gottardi che è un po’ il tema che fa la parte del leone in questo periodo specie nelle sentenze della Corte di giustizia.

Racconto un caso. Un dirigente è stato licenziato ai sensi dell’art. 22, mi pare, del contratto collettivo per i dirigenti di industria, che prevedeva all’epoca la possibilità di licenziare il lavoratore che raggiungeva l’età pensionabile o i 65 anni di età.

Ebbene, all’epoca, quando è stato stipulato il contratto collettivo, le due cose coincidevano, ma quando è stato licenziato il dirigente non coincidevano più, perché era stata aumentata l’età pensionabile. In questo caso il tribunale di Roma ha ritenuto discriminatorio il licenziamento proprio perché quella deroga (che è consentita e autorizzata e che ritroviamo anche in tanti contratti e accordi collettivi) aveva un senso preciso: in un’ottica di avvicendamento delle generazioni, ci sta che uno che arriva all’età pensionabile può essere licenziato purché contestualmente si agganci a un trattamento pensionistico. Ma se quest’aggancio viene meno, la discriminazione non è più giustificata e quindi giustamente il tribunale considerato discriminatorio il licenziamento.

Due parole sulle discriminazioni per motivi di handicap o disabilità, un tema oggi importante e delicatissimo. C’è una legge nuova, del 2013, che ha aggiunto un comma al dl 216; nello specifico ha aggiunto il comma 3-bis, perché lo Stato italiano era stato censurato dalla Corte di giustizia per non aver recepito integralmente la direttiva 2000/78 in materia di discriminazioni. Questo provvedimento è strettamente legato a una definizione allargata di handicap o di disabilità, su indicazione della convenzione delle Nazioni Unite, che poi è stata ratificata anche dallo Stato italiano. In sostanza oggi si considera handicap ogni limitazione risultante da menomazioni fisiche o psichiche durature, che in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con altri lavoratori.

La “base di uguaglianza con altri lavoratori” dev’essere il faro perché parliamo sempre di discriminazione. Teniamo però presente che se si parla di “ostacolo alla partecipazione alla vita professionale”, ci sta anche un licenziamento per inidoneità sopravvenuta alla mansione.

Da quando faccio il mestiere di avvocato mi raccontano che il datore di lavoro in questo caso ha un obbligo di repechage, ma non ha nessun obbligo di modificare la sua organizzazione del lavoro. Bene, questa direttiva, questo comma 3-bis, dice l’esatto contrario. È molto importante che anche le aziende lo imparino. Mi sembra infatti che questo concetto non sia stato recepito completamente.

Che cosa dice il comma 3-bis del dl 216? Che i datori di lavoro privati e pubblici devono adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro per garantire ai disabili la piena uguaglianza. Anche se per i datori di lavoro pubblici questo deve avvenire senza oneri. Ma non per i datori di lavoro privati. Al punto che ci sono alcune decisioni importanti dei giudici di merito che già hanno accolto questo principio.

Il tribunale di Bologna, in un caso di lombalgia cronica da ernia discale L4-L5, riconosciuta anche dall’Inail come malattia professionale indennizzabile, ha dichiarato discriminatorio quindi nullo il licenziamento motivato proprio da questa condizione fisica accertata dal medico competente.

Tenete conto che dopo venti-trent’anni che uno si spezza la schiena con lavori manuali, è molto diffusa “l’inidoneità sopravvenuta”, quindi questa è una tutela molto importante. Bene, il datore di lavoro è tenuto ad adeguare la sua organizzazione di impresa in modo da consentire al dipendente con un’inidoneità sopravvenuta di lavorare in condizione di uguaglianza con gli altri “nei limiti di uno sforzo proporzionato”.

Il tribunale di Ivrea, rispetto ai costi aggiuntivi, ha emesso una sentenza importante. Per permettere a un lavoratore di rimanere al suo posto, era necessario modificare una macchina. Costo: diecimila euro. Ebbene, dato che il datore di lavoro alla prima udienza, ne aveva offerti altrettanti al lavoratore, a titolo di conciliazione, il giudice ha ritenuto che quei diecimila euro fossero un “costo ragionevole”, e quindi ha valutato che il licenziamento fosse ingiustificato.

Vorrei concludere con il racconto di un’esperienza di vita professionale.

Allora, l’art. 2 del dl 216 del 2003, che è lo stesso che dà una definizione di discriminazione di questo tipo, parla di discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età e dell’orientamento sessuale.

Alcuni anni fa, nello stabilimento di Pomigliano, la Fiat aveva deciso di investire ingenti somme per la costruzione della nuova Panda, con un’operazione che prevedeva la costituzione di una newco, la Fip (Fabbrica Italia Pomigliano) e il successivo passaggio dei lavoratori dall’una all’altra attraverso dimissioni e riassunzioni. C’era un accordo sindacale che prevedeva che gli oltre quattromila dipendenti nel giro di un anno passassero tutti dall’altra parte. A metà percorso, quando ne erano stati già assunti 1800, è venuto fuori che di tutti questi non ce n’era nessuno iscritto alla Fiom. Io facevo parte di un collegio di avvocati che difendevano la Fiom. Diciamo che come dato statistico era piuttosto chiaro, però abbiamo fatto fare una perizia.

Abbiamo promosso un ricorso, con la particolare procedura antidiscriminatoria, sostenendo che la discriminazione sindacale, che qui non è espressamente richiamata, rientrasse nel concetto di “convinzione personale”. Su questo c’è stata una grande battaglia, perché la controparte eccepiva che tanto per cominciare le convinzioni personali devono essere qualche cosa di molto simile al credo religioso. Il testo inglese recita “religion or belief”. Quindi tutto si giocava sulla parola “belief”. Che cosa significa? Anche in italiano, l’espressione “io credo” può essere declinata in molti modi. “Io credo di aver sbagliato a prendere la macchina invece che il treno”; ecco, qui si usa il verbo think. Se invece dico: “io credo in Dio”, nelle banconote americane si usa il verbo trust, “In god we trust”. Belief è a metà strada tra think e trust. È un “credo” che però gli avvocati della controparte, con argomentazioni molto sofisticate, specie nel ricorso in cassazione, sostenevano dovesse essere tipo quello di Scientology: un credo laico ma altrettanto intenso.

Noi abbiamo vinto la causa. La corte d’appello di Roma ha dedicato pagine e pagine a questo procedimento.

Però mi era rimasto un dubbio. Fra me e me pensavo: non sarà che avevano ragione loro? Ebbene, poco tempo fa, leggendo un libro di Carofiglio mi sono imbattuto in una frase di Obama che, dopo aver vinto le primarie mi pare nello Stato dell’Iowa, aveva fatto un bellissimo discorso dove ricordava come nessuno avrebbe mai potuto credere che lui, figlio di un padre nato in Kenya, e di una madre nata nel Kansas, potesse diventare Presidente degli Stati Uniti. Era un discorso sull’importanza speranza.

Bene, la frase precisa è: “Hope is the bedrock of this nation”. La speranza è il fondamento, la colonna portante della nostra nazione. Che poi continua così: “The belief that our destiny will not be written for us, but by us”. La convinzione che il nostro destino non sarà scritto per noi, ma da noi. La frase è molto bella, ma a me ha colpito soprattutto l’incipit, the belief. Ecco, qui Obama, dicendo the belief, esprime una convinzione, una convinzione certamente molto forte, ma non minore di quella dei lavoratori che avevano creduto nella Fiom e in ragione di questo non venivano assunti.

(Estratto dalla rivista  UNA CITTÀ N. 236 dicembre 2016)

PDF: 2016-convegno-discriminazioni-verona

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