UN GIUSTIZIA PER RICCHI: LA CONDANNA ALLE SPESE DEL LAVORATORE CHE PERDE LA CAUSA DIVIENE LA REGOLA
Il processo del lavoro del 1973, oltre che essere rapido ed efficiente, doveva essere gratuito, ma anche quest’ultima caratteristica è venuta meno, innanzi tutto a seguito dell’introduzione (ed estensione alle cause di lavoro) del contributo unificato che, com’è noto, ha subito in pochi anni, continui incrementi.

A ciò si aggiunga la recente, ennesima, modifica dell’art. 92 c.p.c.2, in materia di possibilità per il giudice di compensare le spese giudiziarie, vale a dire, di non necessariamente condannare il lavoratore che perde la causa a pagare le spese anche dell’avvocato dell’azienda. Tali disposizioni si applicano ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto: vale a dire dal 12
dicembre 2014!

La norma sui criteri di liquidazione delle spese negli ultimi anni aveva già subito diverse modifiche che andavano nella direzione di restringere il potere discrezionale del magistrato di compensarle: fino al 2006 ciò poteva avvenire per “giusti motivi”, motivi che, dopo la legge n. 51 del 2006, dovevano essere “esplicitamente indicati nella motivazione”. Un’ulteriore restrizione aveva avuto luogo con l’entrata in vigore della legge n. 69 del 2009: questa aveva stabilito che la compensazione delle spese potesse avvenire solo in presenza di “altre gravi ed eccezionali ragioni” anziché di “giusti motivi”.

La recente, ultima, riforma intende evitare qualsiasi possibilità di compensazione al di fuori dei casi di controversie in cui la questione sia “assolutamente” nuova o vi sia mutamento della giurisprudenza. Ma nella maggior parte dei processi le sentenze si basano sui fatti accertati (o che
non si è riusciti ad accertare), più che su questioni “di diritto”. La norma è inserita nel Decreto Legge n. 132/2014 contenente “«Misure urgenti di
degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile» e, in particolare nel capo relativo alla “funzionalità del processo civile di cognizione”. Essa ha, quindi, una portata di carattere generale ed è finalizzata a snellire il contenzioso giudiziario
civile che secondo le stime diffuse dal Ministero si aggirerebbe intorno ai 5 milioni di cause pendenti.

La norma è in perfetta linea con una serie di provvedimenti recentemente introdotti dal legislatore. Si pensi solo: agli ulteriori limiti per ridurre le impugnazioni dei provvedimenti giudiziali; ai contributi unificati pagati due volte in caso di soccombenza; al mancato esonero dal contributo
unificato (peraltro assai elevato) nei giudizi di Cassazione; e, da ultimo, alle “udienze filtro” il cui lessico – come è stato ricordato3 – sembra lanciare un messaggio molto esplicito: il ricorso alla giustizia nuoce gravemente alla salute, digli di smettere!

Ma, se è comprensibile che si voglia disincentivare un ricorso pretestuoso alla giustizia nel campo civile (quantomeno rispetto alle cause cd. “bagattellari”) non è ammissibile che, nelle misure che hanno ad oggetto la giustizia civile, non si tenga in debito conto delle peculiari caratteristiche delle cause di lavoro.

Nel passaggio dal decreto legge alla legge di conversione, purtroppo, non è stata data sufficiente attenzione a tale problematica e ai gravi pericoli insiti nella norma che è passata immutata rispetto al testo del decreto legge.

Il contenzioso delle cause di lavoro è già in forte, progressivo, calo. Dal 12 dicembre 2014 in poi (data di entrata in vigore della nuova disposizione) gli avvocati dei lavoratori dovranno informare i clienti che, di fronte ad una causa dall’esito incerto (quale non lo è?), in caso di sconfitta i giudici
dovranno condannarli a pagare migliaia di euro di spese legali, stante la necessaria applicazione dei parametri professionali introdotti dal D.M. n. 55/2014. Si può prevedere che la metà di loro rinuncerà in partenza, considerando che già molti giudici riservano al lavoratore soccombente un particolare accanimento, talvolta persino in misura superiore alle condanne disposte nei confronti del datore di lavoro. Inoltre, paradossalmente, anche a “parità di liquidazione”, per le imprese gli oneri delle spese legali sono inferiori rispetto a quelle che sostiene un lavoratore, perché le prime hanno la possibilità di inserirli in bilancio e di “scaricare” il costo dell’IVA.

Il fatto è che il codice di procedura, nella sua logica di generale e astratto buon senso (chi perde paga), non considera che “le parti”, nel processo del lavoro, sono in posizione di disparità di mezzi e non possono pertanto essere trattate alla stessa maniera, come l’articolo 3 secondo comma Costituzione dovrebbe insegnare5. Anzi, delle due parti è (quasi) sempre una costretta a prendere l’iniziativa giudiziale se intende rivendicare un diritto, anche quando può non essere, in partenza, in una situazione di piena conoscenza di tutti gli elementi utili per la decisione: si pensi, ad esempio, a una causa di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui il quadro complessivo potrà darsi all’esito del giudizio, dopo che il datore di lavoro avrà assolto l’onere probatorio che incombe su di lui.
Conclusivamente, rispetto alle ultime modifiche delle disposizioni in materia di compensazione di spese che ignorano le peculiarità del rapporto di lavoro, si danno due possibilità. La prima è che si sia trattato di una “svista” del legislatore, che, una volta informato e sensibilizzato, provvederà prontamente a porvi rimedio.

La seconda è che questo provvedimento sia l’inquietante completamento di un più complesso disegno – che passa attraverso la riforma del mercato del lavoro – secondo cui la ripresa
dell’economia e lo sviluppo possano darsi solo con una manodopera demansionata, sottopagata, videosorvegliata e facilmente licenziabile senza la sgradevole interferenza della magistratura. In questa seconda ipotesi – che rischia di allontanare definitivamente dall’accesso alla tutela giudiziaria cittadini che già hanno subito, nel corso di un rapporto giuridico non paritario, sostanziali ingiustizie – sarà necessaria ogni iniziativa utile coinvolgendo la Corte Costituzionale o la stessa CEDU, per salvaguardare quegli interessi di rilevanza costituzionale violati che la norma processuale dovrebbe invece garantire.

Avv. Anna Nuvoli, Avv. Alberto Piccinini

Bologna, 11 Dicembre 2014

L.-n.-162-del-10.11.2014-conversione-D.L.-132-2014

i costi della giustizia dopo la legge 162-2014

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